Politica

Zingaretti e il fronte interno contro le alleanze

Zingaretti e il fronte interno contro le alleanzeNicola Zingaretti, segretario Pd

In settimana il segretario dem vedrà Conte Bettini: «La pazienza del più grande partito della sinistra non è infinita»

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 29 ottobre 2019

In mattinata, mentre tutto l’edificio del governo oscilla pericolosamente sotto gli strattoni dei 5 stelle e di Renzi, Nicola Zingaretti parla al telefono con Giuseppe Conte. Dopo il fallimento umbro, il presidente chiede alle forze di governo di prendersi il tempo «per riflettere». I due si vedranno in settimana. Ma è chiaro che Conte non ce l’ha con il Pd e con il suo segretario, che fin qui ha fatto la parte del leader di una forza «responsabile».

E però «la pazienza del più grande partito della sinistra non è infinita», come dice Goffredo Bettini per primo, interpretando ancora una volta da lontano – trascorre lunghi periodi fuori dall’Italia – gli umori del Nazareno. All’ora di pranzo anche il segretario sbotta su facebook: «L’alleanza ha senso solo ed esclusivamente se vive in questo comune sentire delle forze politiche che ne fanno parte, altrimenti la sua esistenza è inutile e sarà meglio trarne le conseguenze».
Zingaretti ce l’ha con Di Maio che, per tamponare la rivolta dei suoi si affretta a dichiarare fallito l’esperimento delle alleanze locali fra Pd e M5s. Ma ce l’ha anche con l’atteggiamento liquidatorio dei renziani. E con un’affermazione di Renzi contenuta in un’anticipazione del nuovo libro di Bruno Vespa, in uscita il 4 novembre. Il leader fiorentino azzecca una previsione facile – in Umbria la sconfitta era annunciata – e sentenzia: «Fare uno scontro tra l’alleanza organica Pd-5 Stelle e l’alleanza sovranista è stato un errore in Umbria e se replicato ovunque in futuro apre a Italia viva un’autentica prateria».

Nel Pd in realtà la prima reazione dei santi protettori dell’alleanza è tutta in difesa. «Non mi sembra particolarmente acuta l’idea che poiché anche presentandoci insieme abbiamo perso l’Umbria, è meglio andare divisi alle prossime regionali», twitta Dario Franceschini. Eppure il fronte degli scettici viene allo scoperto. Per Lorenzo Guerini, ministro della difesa e leader di Base Riformista, il governo non è in discussione ma non si possono subire gli alleati. I giovani turchi Orfini e Verducci invece puntano il dito contro la scelta delle alleanze locali oltreché quella «strutturale» con i 5 stelle. Sono gli unici a chiedere esplicitamente un congresso a norma di statuto.

Il delicato lavoro sulle future regionali va in fibrillazione. In Emilia Romagna, al voto il 26 gennaio, i confronti convocati sul presidente uscente Bonaccini, sgradito ai 5 stelle, hanno ricominciato a ballare. In Calabria il presidente uscente Oliverio fa sapere che intende ricandidarsi anche senza il Pd. Così lì la sconfitta sarebbe sicura. Il guaio ulteriore è che quella regione potrebbe andare al voto prima dell’Emilia. Dal Pd parte il pressing: «Chiediamo a Oliverio di indire la consultazione per il prossimo 26 gennaio», dicono in una nota congiunta il commissario del Pd calabrese Stefano Graziano e Nicola Oddati. Il sottotesto è: un’altra sconfitta metterebbe a rischio anche l’Emilia Romagna.

Al Nazareno le riunioni si rincorrono: Di Maio minaccia rotture, viene spiegato, ma «noi non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione formale. Siamo rimasti alla cena con Zingaretti in cui si era concordato di mettere mano alle regionali in Calabria. E Di Maio aveva avanzato la proposta di Pippo Callipo come candidato presidente». Ora le cose sono cambiate? All’Huffington post Andrea Orlando rincara: «Pensare che si risolva dicendo “non siamo compatibili a livello locale”, ma possiamo governare un paese fino al 2023 mi sembra abbastanza stravagante. Logica dice che se si prende atto che le ragioni della propria parte sono incompatibili con uno spirito di coalizione il passaggio è molto chiaro: evitare ulteriori e certi logoramenti», in questo caso il voto «è la conseguenza».

La minaccia del voto, che al Nazareno definiscono semplicemente «una considerazione», sembra un’arma spuntata, un pensiero disordinato: la sessione di bilancio finisce a fine anno. Andare al voto senza una nuova legge elettorale significherebbe regalare il governo a Salvini. C’è anche da contare che a gennaio scadono i termini per la richiesta di referendum contro il taglio dei parlamentari. E però al Nazareno ormai è diffusa la certezza che continuare a fare la parte dei «responsabili» porta in un vicolo cieco. In serata Zingaretti a Frosinone si lascia andare: «Se Di Maio vuole andare avanti da solo con l’8 per cento, auguri».

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