Zerocalcare da Kobane in Val di Susa
Storie Il fumettista romano per tre giorni è insieme agli attivisti No Tav. «Non c'ero mai stato, ma ogni angolo della Val Clarea mi sembrava di conoscerlo, di averlo già visto». Sui fatti di Parigi: «È stata una barbarie, ma un giornale, percepito come mainstream e realizzato da francesi bianchi, che ironizza sulla religione dei giovani delle periferie, non aiuta alla ricomposizione della frattura sociale»
Storie Il fumettista romano per tre giorni è insieme agli attivisti No Tav. «Non c'ero mai stato, ma ogni angolo della Val Clarea mi sembrava di conoscerlo, di averlo già visto». Sui fatti di Parigi: «È stata una barbarie, ma un giornale, percepito come mainstream e realizzato da francesi bianchi, che ironizza sulla religione dei giovani delle periferie, non aiuta alla ricomposizione della frattura sociale»
È stato come ripercorrere alcune impronte sedimentate nella mente. Il sentiero, i castagni, il torrente, la baita, il traliccio dove cadde Luca, le reti, l’area archeologica della Maddalena. Da Giaglione a Chiomonte. «Non c’ero mai stato, ma ogni angolo della Val Clarea mi sembrava di conoscerlo, di averlo già visto. D’altronde, vivo sommerso dai racconti di compagni che in Val di Susa c’erano stati. Per me, che arrivo da una realtà urbana come Rebibbia, è un posto con una natura stupenda. L’altra faccia della medaglia è, però, lo sfregio a cui ti trovi di fronte: il cantiere dell’alta-velocità sotto l’autostrada. Una ferita».
Ieri mattina, Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech), fumettista romano, ha percorso insieme ai giovani No Tav le strade della lotta contro la Torino-Lione. Per qualche giorno è loro ospite a Bussoleno, per presentare l’ultimo libro Dimentica il mio nome (Bao Publising) e il reportage disegnato «Kobane Calling» per Internazionale. Si ferma per tre giorni, al limite di quelle 72 ore da cui può separarsi dalla periferica Rebibbia, che per Zerocalcare è più di un luogo dell’anima. «Al quarto giorno mi riempio di macchie rosse; in realtà in Kurdistan, tra i curdi che combattono contro l’avanzata dell’Isis, sono stato otto giorni e non mi sono sentito fuori dal mondo. Ho resistito senza l’ampolla con l’aria di Rebibbia da pippare».
«Da ragazzino – racconta al tavolo della Credenza di Bussoleno, l’osteria ombelico della lotta No Tav – prima ancora che al mega-carcere, quando pensavo al mio quartiere, pensavo al capolinea della metropolitana. A Rebibbia non ci passi, non c’è niente, se non per incontrare qualcuno. Nasce, allora, in te un orgoglio di appartenenza. E, poi, checché ne dicano gli altri, è un quartiere bellissimo, tranquillo con addirittura le palme.
Anche per questo motivo, è facile per me comprendere la forte identità dei ragazzi valsusini. Questa valle è un punto di riferimento per la dignità che ha espresso».
La scintilla per l’impegno politico scattò in Michele, quando, a nemmeno 15 anni, nel 1998 scoprì la lotta dei No Tav, ancora ai primordi, a un concerto, al Foro italico, dei Chumbawamba, band britannica d’estrazione anarco-punk che sul finire dei Novanta raggiunse l’apice del successo commerciale. «Erano in formazione ridotta perché la cantante aveva la mandibola contusa per le botte prese dalla polizia a Torino, durante il corteo successivo al suicidio di Baleno in carcere. Rimasi colpito dalla vicenda. Da quella storia in cui era immediato riconoscere la parte giusta, i Robin Hood». Venerdì pomeriggio, il Polivalente di Bussoleno era strapieno. 400 persone stipate nel Pala No Tav, soprattutto ragazzi giovanissimi. «Oltre alla lotta, costruiamo momenti di socialità – spiega Erica del Kgn (Komitato giovani No Tav), una delle organizzatrici dell’incontro –, Michele ha accettato subito l’invito». Ha finito di autografare e disegnare sui libri alle nove di sera. «In realtà – dice Zerocalcare – mi aspettavo venti, trenta persone», sgranando gli occhi e non per finta modestia. Ancora non si capacità del successo che l’ha travolto: i suoi libri hanno venduto oltre 200mila. «È un sacco difficile gestire questa situazione. Vivo con un complesso di inferiorità verso il mondo».
A Kobane è andato, a settembre, con la «Staffetta romana», composta soprattutto da militanti dei centri sociali. In realtà, era a Mehser, lato turco. «Tipo Rebibbia-Santa Maria del Soccorso, tre fermate di metro di distanza». Ne è nato uno straordinario viaggio a fumetti, che intreccia diversi registri con la naturalezza che solo l’autore conosce: malinconico, ironico, poetico e impegnato. «Mi ha stupito l’assenza di una rappresentazione o un richiamo alla violenza, i bambini non giocano con le armi, i manifesti non si rifanno al culto militare e i guerriglieri sono quanto di più lontano ti aspetti. I giornali occidentali ne raccontano solo il lato folkloristico le donne guerrigliere, ma non approfondiscono il modello Rojava, che le ha portate a difendere la loro terra, la striscia autonoma divisa in tre cantoni, retta da un confederalismo democratico basato sulla convivenza etnica e religiosa, l’emancipazione femminile e la redistribuzione delle ricchezze».
Con Zerocalcare, che è francese da parte di madre, non si può non parlare dei tragici fatti di Parigi, l’attentato terroristico alla rivista satirica Charlie Hebdo. Nei giorni a ridosso degli eventi ha evitato qualsiasi dichiarazione, ha staccato il telefono. «È una vicenda complessa, difficile fare ragionamenti con 12 morti freschi. È una barbarie. Ma quel che è successo non è un problema di libertà di stampa o di satira, bensì di un fascismo che sta prendendo piede nelle nostre periferie e a cui bisognerebbe mettere un argine, come succede a Kobane. In Francia c’è un dibattito in corso sulla satira, che ritengo debba essere libera e senza censura. Ma un giornale, percepito come mainstream e realizzato da francesi bianchi, che ironizza sulla religione dei giovani delle periferie, non aiuta alla ricomposizione della frattura sociale. Non basta dire che veniva rivolta anche ai cristiani. La satira è tale se va contro il potere».
Mehser vicino a Kobane, Bussoleno in Val di Susa e, ancora, Rebibbia, dove è nato Dimentica il mio nome, romanzo grafico che rappresenta forse il suo lavoro più maturo. Per la prima volta, Zerocalcare tocca temi intimi e familiari con il solito mix di realismo, ironia e poesia. Affronta il suo complesso psicologico sul dolore degli altri e lo fa dopo il pianto della madre per la morte della nonna. «Ne ho ancora paura, il sentimento di repulsione verso il dolore della madre è orribile. E mi è andato di raccontarlo, per provare a superarlo, anche se non ci sono riuscito. Probabilmente se ne hai così timore, hai paura di affrontare il tuo dolore». Zerocalcare, in bilico tra il ricordo dell’innocenza giovanile e le difficoltà dell’essere adulto, va alla ricerca delle radici. E con la scansione in capitoli, che isolano piccole storie, disegnate in bianco e nero e macchiate talvolta dal colore arancione, trova la giusta formula per un romanzo che ti tiene incollato pagina dopo pagina.
Zerocalcare scrive, disegna ma ripete, ogni volta, di non essere mosso dal «sacro fuoco» dell’arte, provato solo per il primo libro La Profezia dell’Armadillo, quando volle fissare il ricordo di un’amica morta. In genere, in lui ci sono principalmente l’esigenza di raccontare e «quella di pagare le bollette». «Volevo fare il paleontologo, mi piacevano i dinosauri». Il G8 di Genova fu un’esperienza forte e intensa e da quel momento non ha più smesso di far fumetti. Disegna anche in Val di Susa. Lo farà, pure, di ritorno a Rebibbia, questa sera.
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