Zeri: i misteri, i foglietti che mi ha spedito
Mi è successa una cosa sorprendente. Mi correggo: trattandosi di chi si tratta quel che è accaduto sembra plausibile. Mi è stato chiesto di rendere note alcune delle lettere scrittemi da Federico Zeri risalenti ai primi tempi del nostro lungo sodalizio iniziato nel 1958, quando lo conobbi a Firenze. Avevo utilizzato alcune di quella corrispondenza per i miei ricordi autobiografici (Le Tre Età, Milano 1999) ed ero certo di trovare quella cinquantina di foglietti con l’en téte di via Severano, dove Zeri viveva quando lo conobbi, e poi quello di via Facciate a Mentana dove si trasferì nel 1965 e dove morì nell’ottobre del 1998. Le lettere però sono scomparse tranne due che non mi erano servite per il mio volumetto: una di queste è una parodia vessatoria di una poetessa nota che, a quanto è ovvio, Federico detestava; da essa mi limito, imbarazzato, a trascrivere l’inizio: «T’ho avuto ospite occasionale! … T’ho avuto per me sola … cosce di durezza che consola».
Non ho particolare ammirazione per questo lato della sua personalità che lo portò ad alcune farneticazioni televisive e ad un intero volume di dileggi e improperi. È innegabile però che questo aspetto scurrile di Zeri non può essere ignorato se si vuole conoscere appieno l’uomo. Era ossessivo, come ossessivo era il suo perfezionismo professionale che lo portava ad indagini filologiche impeccabili dove non si escludevano virgole, punti e virgole, trattini e parentesi. Alle creature geniali non si può chiedere il senso comune e nemmeno il buon gusto: sono al di là di queste qualità. Senza arrivare sempre a tali punte di rabbia contro il mondo e i suoi abitanti è bene sapere che lui aveva bisogno di un nemico da combattere, chiunque esso fosse, dal vicino di casa, ad una principessa sciocca, dal papa a Roberto Longhi, nostro comune maestro, a cui furono destinati insulti di ogni genere dagli inizi degli anni sessanta fino al giorno prima della morte. Longhi se ne curava poco ma a me questi attacchi restavano insopportabili e fui costretto in più occasioni a dirglielo chiaramente.
Il parallelo con Mario Praz
Quando sono andato a cercare quella corrispondenza si è dimostrato impossibile trovarla, eppure so che in casa esiste. Sono anche certo che questo è il volere di Zeri. C’è un che di misterioso in fatti del genere, non dissimile da quel che accadde alla scomparsa di un suo e mio caro amico, Mario Praz. Subito dopo la morte dell’anglista (come spesso veniva chiamato quando si preferiva, stupidamente, non pronunciare il suo nome) venne trafugato dalla sua casa un notevole gruppo di oggetti d’arte: qualcuno è ricomparso, solo qualcuno. C’era anche qui un desiderio di distruzione? A me personalmente è toccato un fatto bizzarro. Avevo, forse ancora ho, un piccolo acquarello con le sue sembianze, fatto da Bruno Caruso, in cui lo si vede, triste e pensieroso, cinto di lauro col serto che gli venne conferito da un’università nordica.
Ebbene, questo foglio ogni tanto scompare e riappare in posti dove non l’avevo mai messo – un avvertimento? un ricordo? Non è escluso che le lettere di Zeri seguano lo stesso sentiero così come non è escluso che il suo spirito un giorno punisca chi non gli è stato fedele.
Parliamo adesso di Longhi. L’atteggiamento di Zeri verso di lui non era troppo diverso da quello dello stesso Longhi verso Berenson, una sorta di amore non corrisposto, di emulazione non portata a termine. Oppure di malcelata invidia? Il modello dello storico dell’arte-personaggio venne stabilito alla fine dell’Ottocento da Berenson quando acquistò la villa I Tatti dove sistemò una meravigliosa biblioteca e si dette a ricevere quanto di meglio sia socialmente sia intellettualmente circolava all’ epoca. Lo fece con immenso successo. Longhi lo seguì verso la fine degli anni trenta, in una casa colonica di via Benedetto Fortini a Firenze, dove il livello degli invitati era più provinciale. Venne poi Zeri, quando si trasferì ad una certa distanza da Roma, in una villa che ricordava un bunker post hitleriano dove le frequentazioni, tenendo anche conto della parsimonia del proprietario, non erano sempre della più alta classe. Non tutti amano stare al freddo senza nemmeno una tazza di tè.
Il resto è noto. A mio tempo cercai ingenuamente (e qui devo citare me stesso) di riconciliare gli amati maestri. Longhi, a quanto mi disse, non era contrario essendosi dimostrato sempre se non indifferente almeno distaccato dalla veemenza di Zeri. Quest’ultimo però mi rispose in una lettera del 15 novembre 1965 da New York: «Non sono affatto urtato dal suo invito a riprendere la collaborazione su Paragone. La verità è che mi ci sono provato, ricevendo in risposta un’ennesima villania. Il fatto è che non tutti arrivano alla completa maturità mentale (e morale); si può essere dei genii e presentare, nello stesso tempo, aspetti infantili: ne sia esempio il sommo campione della schiera di superuomini tutti nati intorno al 1890, e cioè Adolfo Hitler. (Longhi era nato nel 1890, ndr). Dopo essere stato boicottato nell’università, dopo aver assistito ad una penosa campagna contro i miei libri; dopo essere stato oggetto di pettegolezzi degni di sguattere (e non certo di persone colte); dopo tutto questo posso anche guardare indietro senza rimpianti e senza timori, lasciando affogare nello sterco chi desidera farci il bagno. Fra l’altro da noi si dice che ‘acqua passata non macina più’; e per me le persone sepolte sono sepolte, a riesumarle ne verrebbe fuori un terribile puzzo».
Ci si domanda, quando si leggono queste frasi e quelle, a dire il vero non troppo diverse, che Longhi scrisse attorno al 1950 su Berenson (nella sua rivista «Paragone», ndr) se paradossalmente non fosse in atto in ambedue i casi una sorta di autocaricatura sotto mentite spoglie, il riflesso di uno specchio annerito. Si finisce sempre per odiare l’indole degli altri quando assomiglia alla nostra.
L’inclemenza del grande erudito
Sono certo che adesso sarò accusato di inclemenza nei giudizi. Ma non stiamo qui parlando di un uomo clemente anche se prodigiosamente acuto ed erudito. La bontà per il prossimo è cosa riservata a pochi e perlopiù solo a chi è molto sicuro di sé. È il timore a farci diventare grandi accusatori. Sentiamo adesso parlare il nostro amico di uno storico assai noto per il quale, a quanto mi scriveva il 7 dicembre 1962, non nutriva alcuna pietà. Si trattava di Roman Ghirshman e del suo volume sull’arte persiana preislamica apparso nella collana da me allora seguita presso l’editore Feltrinelli «Il Mondo della Figura». Zeri ammette «che l’autore del libro conosce molto vagamente il mondo antico; o che, forse, si è troppo specializzato nei persiani, ignorando le cose greche e romane». E continuava motivando con molti esempi il suo asserto prendendo in giro alcune idee dell’autore: «il passo più strano (e davvero comico) è quello relativo ai celebri mosaici di Bishapur, dove, a proposito della serie di teste, si legge che persiano è anche quel tipo di ritratto che non va più giù del mento, e che alcuni sono ritratti che rappresentano personaggi appartenenti alla famiglia reale o a classi privilegiate. Così, in base a tale straordinaria interpretazione, una testa femminile (coronata, guarda il caso, a mo’ di baccante) viene indicata come ‘giovane donna’ mentre un’altra testa maschile è descritta nella didascalia come ‘alto dignitario’, senonché quest’ultimo personaggio è munito di vistose corna di capra e di orecchie da somaro. Presso di lui è una zampogna, confermando che non si tratta di ritratti ma di comuni maschere teatrali, come in mille altri mosaici romani o ellenistici. Non parlo poi dell’idea di vedere nel pavimento della sala la copia di un tappeto persiano dell’epoca». Zeri aveva perfettamente ragione e la sua requisitoria mi fece sentire responsabile di non aver discusso con l’editore sull’opportunità di correggere affermazioni che, pur non essendo appieno edotto, mi erano apparse un po’ troppo tassative. Ghirshman, seppure in forma privata, era stato messo al suo posto, io al mio.
Verso la metà degli anni sessanta abitavo a Milano ma appena potevo andavo a visitare rovine e luoghi archeologici, certamente influenzato da Zeri stesso e da occasionali incontri con Bianchi Bandinelli. Il 2 agosto del 1965 Zeri mi diceva: «Non nascondo una certa dose di invidia per un viaggio come questo, che dovrei aver già fatto da anni e che ho sempre rimandato alle calende… greche. Fra l’altro da quelle parti sarei un po’ a casa mia ed è indispensabile che ci vada prima della visita a Homs, da cui – orrore! – proviene la mia famiglia, di origine, quindi, levantina (ma anche la città dove nacquero Julia Domna, Eliogabalo, Severo Alessandro). Non conosco l’Augusto del Museo di Costantinopoli dove, peraltro, ci deve essere uno splendido Diocleziano da Nicomedia. Sugli splendori dei musei greci, inutile spendere parole… viva le antichità classiche e al rogo tutti i quadri dipinti dopo il 476 d.C.». Non so se Zeri provenisse dalla Siria come qui diceva ma una certa inclinazione al teatro, all’artificio gli era naturale. Oggi ci lasceremo qui, a metà degli anni sessanta, quando Zeri aveva dato il meglio di sé. Lo stesso era accaduto a Bernard Berenson: la parte più proficua della sua vita ebbe luogo prima dei quarant’anni e quando arrivò a I Tatti, nonostante le apparenze, finì per ripetere seppur brillantemente sé stesso. Nel lungo trentennio che gli restava ancora su questo pianeta Federico Zeri si trasformò in un personaggio pubblico, portato più ai monologhi spettacolari che allo scambio sereno di idee. Preferiva parlare piuttosto che ascoltare e così via via seguì soltanto i labirinti straordinari della propria mente.
Un ultimo dei suoi foglietti-lettere che mi rimane è del 2 settembre 1964. Si tratta di un violento attestato antigermanico in un certo senso perfettamente circostanziato. Lo trascrivo qui. Allora vivevo a Milano da un paio d’anni e lavoravo da Feltrinelli, come si deduce dalla lettera di Federico (ma allora non ci si chiamava ancora per nome dopo sedici anni di consuetudine). «Caro Gonzales, grazie della lettera, che trovo al ritorno all’ovile. Vedo che le sue attività sono estremamente movimentate, e che lei non manca di vedere tutto ciò che si può vedere, in tutti i campi possibili. Io, invece, mi sento molto pigro e provinciale, e sono sempre più restio a spostarmi. Torno da un viaggio interessantissimo in Polonia, dove, accanto a cose splendide (come la città di Cracovia, la vecchia Varsavia e il meraviglioso Leonardo Czartoryski), ho visto anche il campo di Auschwitz-Birchenau, dal quale ho ricevuto una scossa tale che mi ci vorrà molto tempo a rimettermi. Guai, d’ora in poi, a chi mi parlerà di “cultura” tedesca! La visita a quell’inferno mi ha convertito al razzismo, nel senso che considero sinceramente i tedeschi quali esseri inferiori, da schiacciare ed evitare come cimici infette. Quanto ai loro Goethe, Kant, Bach, ecc., non vedo come possano giustificare orrori del tipo di quelli che ho visto con i miei occhi. Se poi per avere i Goethe, Kant, Bach, ecc. debbo accettare anche i tedeschi, allora faccio a meno degli uni e degli altri. Le assicuro che la visita a quell’inferno va fatta, apre gli occhi su molte cose. Ma ne riparleremo. Io riparto a giorni per Londra e dintorni, poi torno qui per vedere la varie Mostre. Perché Feltrinelli non vende i suoi libri in Polonia? Le librerie sono piene di cose francesi, inglesi e americane, ma noi, come al solito, brilliamo per la nostra assenza. Molti cari saluti Federico Zeri».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento