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Virgilio, Seneca e Pascoli latino nella visione linguistica di Alfonso Traina

Virgilio, Seneca e Pascoli latino nella visione linguistica di Alfonso TrainaPallante presenta Enea al padre Evandro, acquaforte e bulino di Carlo Cesio, da Pietro da Cortona, Roma, Gabinetto Disegni e Stampe, Fondo Corsini

Filologi classici Alfonso Traina (1925-2019), tra i più acuti conoscitori della lingua e letteratura latine, amava accostare i testi partendo dalla forma e dal suono: come mostrano i numerosi scritti «tecnici» raccolti da Pàtron in Parva philologa

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 22 gennaio 2023

Nei manuali sono ricordati i nomi solo di pochi studiosi. In quelli di letteratura italiana compaiono Contini, Folena o Raimondi.

Per il latino, più ancora di Barchiesi, Conte o Mariotti, si legge il nome di Alfonso Traina (1925-2019). Si devono a lui, professore a Padova e Bologna, contributi molto importanti: soprattutto la definizione, su uno spunto di Concetto Marchesi, dello «stile drammatico» di Seneca, divenuto centrale in ogni presentazione dell’autore.

Sua un’acuta sintesi sull’evoluzione dello stile latino letterario: «La cellula stilistica di Seneca e della sua età è la frase, la sententia; nell’epoca di Cesare e di Cicerone era stata il periodo; nell’epoca di Frontone sarà la parola».

Un cinquantennio durò l’attività di Traina (rievocata da Bruna Pieri su queste pagine il 29/9/19), e gli autori preferiti furono, oltre a Seneca, Plauto e Catullo, Virgilio e Orazio: e il Pascoli dei testi in latino. Nei suoi studi, prevalsero ricerche di taglio linguistico, preservate perciò dal logoramento che talora rende obsoleti gli approcci letterari.

Sopra i suoi temi, Traina tornava con successivi ripensamenti e approfondimenti: i suoi libri sono stati sistematicamente aggiornati, per fiducia incrollabile nel progresso della ricerca.

Alcuni sono in circolazione da decenni: il volume sullo stile di Seneca, nato da un saggio del 1964, ha avuto una revisione nell’87, e il saggio sul Pascoli latino, del 1961, fu rivisitato ancora nel 2010. Definito dal suo maestro Pietro Ferrarino come «filologo di rigorosa osservanza, esegeta di forte sensibilità linguistica», Traina prese le mosse dalla tradizione bolognese di studi latini, che sviluppò senza essere condizionato dal feticismo della norma astratta, o dalla coniunctivitis professoria: lo prova la Propedeutica al latino universitario (scritta con con Giorgio Bernardi Perini per Pàtron) sempre riproposta dal 1972, insieme ai tanti lavori nei quali la riflessione linguistica si fa ricerca semantica e espressiva, in forza di un senso acutissimo della storia, della diacronia e dell’esegesi.

Traina, legato alla coerenza «logica» della grammatica, ebbe al contempo interesse per aspetti della linguistica moderna, quando si integravano alla sua visione: lo mostrano alcuni volumi accolti nella sua collana di «Testi e manuali per l’insegnamento universitario del latino» (Pàtron, a oggi oltre 150 titoli). Nei suoi studi, egli analizzava ora l’articolazione complessa della sintassi, ora lo scavo paziente della parola, come nel meritatamente celebre saggio Semantica del ‘carpe diem’ (1973), sopra la nota espressione oraziana.

Dalle indagini particolari derivarono dense sintesi, come le Introduzioni a Catullo e a Orazio (per la Bur): la sua idea era che tutti i testi siano da considerare con una lettura «circolare», fortemente unitaria, capace di tenere sempre conto, in compresenza, di tutti gli elementi.

In effetti, Traina fu soprattutto autore di saggi, tesi all’analisi del dettaglio e coerenti nel metodo di scavo, analisi giunta nei lavori più recenti a una densità concentrata di espressione. Dichiarò d’essere uno di quei critici che accostano la letteratura a partire «dalla parola e dal suono»: e dalla lunga consuetudine con i testi nacque una vena poetica, approdata anche a densi epigrammi in latino (Lapilli, Pàtron 2016).

L’unità coerente dei saggi è meglio apparsa quando sono stati riuniti in volume. Le cinque raccolte dei Poeti latini e neolatini (Pàtron, 1975-1998), insieme a La lyra e la libra (Pàtron 2003), formano un corpus di importanza paragonabile ai monumentali Contributi di Arnaldo Momigliano, pur se meno celebre e meno compulsato di quelli, soprattutto fuori d’Italia: vi si ricorre per leggere, rileggere e sempre imparare, non per inzeppare pagine con materiali tralatici.

A queste raccolte se ne unisce ora un’altra, predisposta dall’autore ma uscita postuma con integrazioni: Parva philologa, a cura di Francesco Citti, Lucia Pasetti, Bruna Pieri (Pàtron Editore, pp. LXVIII-728, € 75,00). Vi compaiono lavori scritti tra il 1948 e il 2016, non altrove ripresi e giudicati giustamente meritevoli di ristampa. (Altri saggi, di più largo impianto, sono stati riproposti in un altro volume a cura di Patrizia Paradisi, che firma anche un utile saggio introduttivo: Il latino. Identikit di una cultura, Pàtron, pp. 173, € 24,00).

La raccolta è ordinata in sezioni tematiche: Esegesi e sintassi, ristampa di un contributo del 1955; Grammaticalia, su argomenti linguistici; Auctores per i contributi dedicati specialmente a Virgilio e Orazio, e Varia. I temi di taluni saggi suonano minacciosi (le frasi interrogative nel discorso indiretto!) ma molto rimerita la loro lettura.

Nemico di ogni acquiescenza acritica, Traina muoveva spesso dalla «storia della questione», non catalogo soporifero o esibizione erudita, ma puntuale analisi del problema, in dialogo con (tutti) i predecessori: così quando rintraccia l’origine di un tecnicismo acquisito, ma non sempre chiarito, come «paratassi», nato in Germania nel 1826 e diffuso in Italia dalla metà dell’Ottocento. I problemi, saldamente ancorati al testo, non in termini esclamativi o impressionistici, lo portavano a formulazioni efficaci, come quando definiva Terenzio a metà «tra la scapigliatura plautina e la gracilità menandrea, entrambi irripetibili», o considerava la polemica di Cicerone sull’epicureismo a Roma non come «il dissenso tra due teorie che si esaurisca nei rotoli di un volume o nelle aule di un’accademia», bensì come «l’urto fra due concezioni che possono dare un senso alla vita».

Tra i saggi più importanti ci sono quelli scritti per le enciclopedie dedicate a Virgilio e Orazio (Treccani, 1984-’90 e 1998): di lettura più impegnativa, perché stesi in forma condensata e pieni di dati, ma di speciale importanza e forza. In voci come pietas, o Turno, Traina affronta i problemi fondamentali per la comprensione del poema: «il lessema finale dell’Eneide è l’ombra che l’attualità della storia proietta sul lontano splendore degli aurea saecula» di Roma.

Di qui il magistrale commento che Traina dedicò al libro finale (Virgilio. L’utopia e la storia, Il libro XII dell’Eneide, Patron 2004, rist. 2017). Importanti pure i ritratti di studiosi virgiliani, come Pascoli, e poi Giuseppe Albini (1863-1933), allievo di Carducci, collega di Pascoli, maestro di Renato Serra: in lui si coglie la storia di una remota stagione dell’ateneo di Bologna.

Il rigore metodico di Traina si esercitava nelle recensioni, in ampio numero presenti nel volume. Sottogenere critico ora sepolto da sciocche regole accademiche e da ruffianeria giornalistica, la recensione meriterebbe attenzione (ne trattò nel 1997 un fascicolo di «Storiografia»: La recensione: origini, splendori e declino della critica storiografica).

Da «analizzatore del particolare», quale si definiva, egli prendeva il compito assai seriamente, e nel discutere lavori fondamentali o minori riversava minuziosa attenzione, generosa dottrina, notevole chiarezza, talora franchezza polemica.

Così nel 1994, presentate le tesi e rilevati gli errori (*frondiferus!) nell’opera di un glottologo italiano, chiudeva glaciale: «Per scrivere la storia di una lingua, bisogna prima saperla». Nel 1999 definì Paul Veyne, recentemente scomparso, «poliedrico ma inaffidabile studioso nelle sue spesso apodittiche e provocatorie affermazioni»: il suo libro su Seneca, goffamente tradotto in italiano, gli pareva troppo poco legato ai testi, sì che l’opera è definita magis speciosa quam vera.

Rispetto a una produzione estesa su tanti decenni (e quali!), solo una parte reca, non per causa dell’autore, i segni del tempo: quella dedicata alla scrittura o alla traduzione in latino, prassi oggi estinta, che fino agli anni sessanta del Novecento impegnava molto docenti e studenti. Si usava allora inventare neologismi o parafrasi per dire in latino i concetti della modernità: nel 1956, un valente studioso italiano dissertava per venticinque (anzi: xxv) pagine utrum liceat necne, quibus modis sint verba novanda ad novas res significandas. Secondo Traina, tutto ciò aveva come vero scopo il «conoscer meglio il latino antico», sicché andava cercato un lessico storicamente attendibile: per rendere un tecnicismo ottocentesco come «agorafobia» propose tumultuosae viae pavor ac tremor (1967).

Conta di più il suo senso storico della lingua, che demoliva gli idola scholae: per esempio, il falso suppletivismo tra vis e robur, a lungo insegnato nelle scuole solo italiane, proposto ai primi del Novecento dal glottologo Luigi Ceci e sancito poi dall’autorevolezza di Gandiglio.

Adattando una metafora, a sua volta ripresa da Traina, i lavori raccolti in questo volume erano in maggior parte destinati ai «cuochi» e non ai «convitati», ai tecnici della lingua latina e non ai fruitori di testi in latino. Ma i convitati non sono esclusi, perché in questi scritti, pur tecnici, i problemi sono inquadrati entro cornici vaste, e sempre il particolare sa lumeggiare temi maggiori di cultura.

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