«Io non credo nei ‘Maestri’». Così amava dire Alfonso Traina. Parole che sconcertavano, sulla bocca di un maestro degli studi di lingua e letteratura latina. Maestro riconosciuto dai maestri («uno dei più fini latinisti del mondo», lo ha definito Antonio La Penna), in un ambiente non sempre generoso di riconoscimenti verso i pari. Maestro amico dei maestri (celebre il sodalizio con Scevola Mariotti), di cui sottolineava le doti anche quando gli capitava di dissentire. E maestro di maestri, perché alla sua lezione si sono formati alcuni dei migliori docenti di scuola e università, non solo di latino e non solo nelle sedi dove si tennero i quasi cinquant’anni del suo insegnamento, Padova prima e Bologna poi. Perché chi veniva dal magistero di Traina ne trasmetteva a sua volta metodo e contenuti, ‘prescrivendo’ anzitutto la lettura di quella Propedeutica al latino universitario, scritta con l’amico Bernardi Perini, che ha formato intere generazioni di insegnanti. E perché Traina, con chi gli chiedeva di rivedere un lavoro in preparazione, fu sempre assai generoso del tempo che nessuno gli avrebbe mai reso, come ben sapeva l’interprete di Seneca.
Il suo tempo, certo, è stato lungo. Nato a Palermo nel 1925, di fatto crebbe e visse a Bologna; qui studiò, laureandosi sulla pietas in Virgilio («non si dovrebbe mai assegnare una tesi simile», diceva), con Pietro Ferrarino, che seguì a Padova, dove da poco era andato in pensione Concetto Marchesi; rientrò a Bologna nel 1974 e vi rimase sino al collocamento fuori ruolo, nel ’97. Anche dopo, non ha mai smesso di scrivere e stimolare gli altri a farlo, magari per accoglierne i lavori nella collana di Pàtron da lui fondata («Testi e manuali per l’insegnamento universitario del latino»; per gli specialisti, era la prestigiosa «collana bianca di Traina»). Tanti i riconoscimenti ricevuti, fra cui la Medaglia d’oro di Benemerito della Scienza e della Cultura e la cooptazione ai Lincei e altre prestigiose Accademie.
Un tempo lungo, ma non vuoto, insomma, sicché per Traina non vale il senecano non ille diu vixit, sed diu fuit («non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo», per usare la sua traduzione). Scrisse decine e decine di monografie e parecchie centinaia tra articoli e contributi. Ma contarli non gli sarebbe piaciuto: diffidava della quantità, invitando piuttosto a dosare le parole, né serve a noi per capire novità e validità del pensiero e del metodo. Più utile osservare il ‘canone’ – che pure non gli ha impedito di occuparsi di ogni fase della lingua e letteratura latine – degli autori da lui più frequentati: Plauto, Catullo, Virgilio, Orazio, Seneca, Pascoli latino. A questi ha dedicato anche edizioni commentate e tradotte, che hanno avuto e hanno larghissima diffusione e restano modello perenne di divulgazione. Le sue Bur trovavano subito posto sulle scrivanie degli studiosi, perché non rinunciavano mai al rigore scientifico, o degli studenti in debito di esame, ma anche e soprattutto nelle case di chi era semplicemente curioso verso una letteratura lontana nel tempo e che finalmente si faceva accessibile e prossima. Perché, per sua ammissione, e orgogliosa rivendicazione, la lettura di Traina, partendo da «una certa sintonia fra il critico e l’autore (come io poetico, non come io empirico)», approdava al «vissuto dell’uomo nella sua temporalità storica ed esistenziale»: ecco allora l’Orazio nevrotico e ansioso della strenua inertia, lontanissimo da una certa immagine cristallizzata del poeta sorridente e sereno; o il Virgilio che denuncia il prezzo di morte della pace augustea, equidistante sia dal cliché del servo dei potenti, sia dal decostruzionismo di chi vedeva nel poeta dell’Eneide «troppe voci», come recita il titolo di un suo saggio. O, ancora, Seneca: quasi un alter ego di Traina, nella scrittura e nello «specifico problema dell’impiego del tempo», secondo le parole di Scevola Mariotti a proposito dell’edizione tradotta del De brevitate vitae.
Ma sarebbe limitativo considerare solo in questa prospettiva studi che seppero reagire tanto al crocianesimo estetizzante (una «critica senza filologia», come ebbe a definirlo) quanto all’idolum di un grammaticalismo che opponeva la «rigidità della norma alla dinamicità della storia»: da Esegesi e sintassi, la prima monografia, il cui titolo dice già tutto del futuro critico, a Vortit barbare, che ogni teorico della traduzione dovrebbe leggere; da Lo stile drammatico del filosofo Seneca, che svelò il «potere psicagogico della parola» senecana, al Latino del Pascoli, che ricondusse magistralmente la produzione latina del poeta al plurilinguismo continiano. Traina riuscì a far parlare i testi usando gli strumenti della filologia classica insieme a quelli della linguistica, della critica stilistica e della filologia moderna. Così, in quell’analisi formale sempre tesa tra asse paradigmatico e sintagmatico, norma e eccezione, lo stile di un autore diventa parte essenziale del messaggio, e il farsi e disfarsi della lingua latina, da Plauto a Pascoli (per usare il sottotitolo allitterante di un altro acutissimo lavoro, Forma e suono), altro non è che prova della sua vitalità. Traina stesso non rinunciò a comporre in latino parte di quelle poesie che, riservate in un primo momento solo agli amici, trovarono poi lo spazio che meritavano in raccolte disponibili a un pubblico più ampio. Perché, come scriveva ricordando il bel latino del collega Elio Pasoli, senza la «capacità di generare frasi nuove … si potrà essere storici o sociologi della letteratura e della cultura, mai interpreti di testi».
Il suo sguardo sapeva farsi microscopico, sezionare due parole o una sola, con implacabile e onestissimo studio di fonti primarie e letteratura secondaria; ma di rado rinunciava al colpo d’ala della sintesi, che in tanti suoi lavori giunge nitida, improvvisa, eppure naturale portato di un ragionamento solo in apparenza arido. Nella seconda ecloga di Virgilio, l’esame serrato dell’espressione si numquam fallit imago, che cela un riferimento all’epicureismo, lo porta a concludere che «Virgilio sostituisce al valore catartico della filosofia il valore catartico della poesia». A proposito della iunctura latina forse più nota, certo più abusata, l’oraziano carpe diem, dopo venti pagine di asciutti dati lessicali arriva il lampo: «a questa chiusura del tempo risponde la chiusura protettiva dello spazio sia reale», dell’angulus, «sia psichico», del modus, il ‘senso della misura’.
Era lo stesso metodo che usava a lezione. Ore densissime, ore di quaranta minuti, durante i quali alcuni foglietti, vergati nella sua striminzita grafia, davano al professore quella sicurezza di cui apparentemente, dopo tanti anni, aveva bisogno: timore di non riempire il tempo, come diceva, o più probabilmente scrupolo di non perdere il filo, di non confondere chi lo ascoltava con improvvisate citazioni a memoria. Una lezione per coloro che sapeva futuri insegnanti. Sosteneva che parlare in pubblico fosse come volare: l’elemento che spaventa è anche quello che sostiene. E infatti non perdeva mai il contatto con l’uditorio, interrompendosi per porre domande o spiegare un dato che poteva non essere a tutti scontato: una lezione, rispetto al rintoccare dei «tutti sanno», dei «com’è noto» di certo linguaggio professorale. Quei foglietti erano frutto di preparazione meticolosa, che spesso erodeva i giorni festivi e non terminava nemmeno quando l’ora era finita: talvolta, a distanza di qualche giorno, tornava su un problema per correggersi, o aggiungere altra bibliografia, altre ipotesi. Una lezione di onestà intellettuale. Al termine di un corso sul De providentia di Seneca, citò un passo dei Fratelli Karamazov. «L’avete letto tutti, vero?», chiese, interpellando l’aula un’ultima volta. «Se non l’avete fatto, uscite di qui e andate a procurarvelo. Agli esami di latino penserete poi». Ecco, più che lezioni, le sue erano, per così dire, meta-lezioni. Difficile per noi lasciare quei banchi, senza credere nei Maestri.