Visioni

Violenza dell’umano e speranza del teatro alla Biennale

Violenza dell’umano e speranza del teatro alla BiennaleUna foto di «Anima» di di Noemie Goudal e Maëlle Poesy – foto di Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Festival Si conclude domani la terza edizione diretta da Ricci e Forte, tra scommesse tecniche e politiche. La natura oppressa di Goudal e Poésy, la resistenza palestinese di Murkus

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 giugno 2023

Si conclude domani la Biennale Teatro, quest’anno forse con meno punti di forza rispetto agli anni passati, anche se siamo già alla terza «puntata» della direzione di Ricci e Forte.
Solo i prossimi tempi (ed occasioni) ci diranno se anche la Biennale College ha promosso quest’anno dei nuovi «piccoli maestri» nelle diverse attività del teatro. Per ora abbiamo potuto assistere ad alcune delle performance selezionate dai due direttori in giro per il mondo.

«Milk» di Bashar Murkus foto di Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

LA PIÙ «CURIOSA», intensa quanto lontana dalle regole della scena, è probabilmente la installazione/performance di due artiste francesi, Noémie Goudal e Maëlle Poésy, una drammaturga e una regista (mai come in questo caso le definizioni suonano insufficienti) che hanno portato nel boschetto della Bissuola, alla periferia di Mestre, un progetto dal titolo Anima. È una sorta di megavisione, su gigantesco schermo, di natura vivente: montagne, vegetazione rigogliosa, cieli e terre. Ma quelle realtà fisiche vengono continuamente ridisegnate, animate e rimodulate dall’intervento umano. Acqua e fuoco si contendono lo scenario e il possesso di quella natura, che perde il prefisso di in-contaminata, anche se non rinuncia al suo potere e alla sua autodeterminazione, a dispetto dall’intervento umano fatto di fuoco e contaminazione. Unica umanità in scena una danzatrice, destinata alla sconfitta ogni qualvolta volesse prendersi un ruolo protagonista. Quella natura è vivente, e anche caparbia, benché destinata a soccombere all’invadenza umana. Per un’ora circa assistiamo a quel combattimento, col brivido ricorrente della reazione degli elementi. L’effetto è quello di una commozione certo, ma indirizzata soprattutto alla cattedrale di ingegneria tecnologica che quella sfida ci racconta. Stupiti o ammirati, non ci si riscalda però più di tanto, come quando arrivarono nelle sale il cinemascope o i 70 mm. Per essere uno spettacolo teatrale, non è facilissimo adeguarsi a restare spettatori inerti di quei prodigi della tecnica, come del resto della nostra colpevole «intraprendenza» ai danni della natura.

È curiosamente l’effetto opposto a quello provocato da Boris Nikitin, performer svizzero che sceglie di presentarsi al pubblico italiano con una semplice lettura (prima di un più impegnativo Hamlet in scena ora). L’artista seduto su una sedia e col testo in mano, ci legge un racconto che dovrebbe commuovere, ma rischia pericolosamente di «annoiare». Lettura in tedesco, con sottotitoli in inglese e in italiano. La vicenda è una figura ormai classica della drammaturgia di oggi: il racconto in prima persona del coincidere della morte del padre con la pubblica ammissione della propria omosessualità. Sullo stesso nodo esistenziale, proprio nel primo anno della Biennale diretta da Ricci e Forte, lo scrittore francese Édouard Louis aveva reso il racconto una grande avventura, con il supporto di riprese cinematografiche e di brani musicali (ma a fianco a lui, anche fisicamente in scena, c’era la regia di Thomas Ostermeier). Qui invece l’impassibile (quasi distaccato) «rigore» del narratore svuota il racconto del suo possibile pathos.

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UNA SORTA di percorso inverso si compie invece in quello che era forse il più atteso (almeno come curiosità) dei teatranti di questa Biennale: il palestinese Bashar Murkus con il suo Kashabi Ensemble. L’artista, poco più che trentenne, ha creato subito dopo la laurea un teatro ad Haifa (quindi in territorio israeliano), il Kashabi appunto. Ma dopo le prime performance, ha portato in scena uno spettacolo che vedeva protagonisti i palestinesi reclusi nelle carceri israeliane. Immediata la reazione del governo di Tel Aviv, che al teatro ha tagliato i sussidi, seguito ben presto con analoga decisione dalle autorità locali di Haifa. Quel sogno di sopravvivenza, o di vita altra, resta un segno permanente nel suo lavoro: in questo Milk visto ora a Venezia, un gruppo di donne è combattuto tra la libertà di movimento dei corpi, e le leggi della fisica che in continuo le mettono a confronto con la materia che calpestiamo, le sue forme, il suo farsi scivolosa e sdrucciolevole (in una acqua che appunto diviene Latte), nel quale l’eroe maschile deve farsi sovrumana forza per non lasciarsi trascinare e magari perire. Una sorta di lattiginosa «favola» è appunto lo spettacolo (applaudito già in diversi paesi europei) che in quelle incertezze, in quei movimenti «spezzati», in quelle momentanee riappacificazioni tra esseri umani, ci rappresenta con una sua poesia una condizione, e una speranza. Al di là dell’effetto spettacolare, che può risultare più o meno gradevole o ingenuo, quel Milk primordiale dà una consolante speranza di ricerca.

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