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La scena riapre cercando verità

La scena riapre cercando veritàUna scena tratta da «Hard to be a God» di Kornél Mundruczo – foto di Andrea Avezzu

Palscoscenici sull'oggi Alla Biennale teatro gli spettacoli di Kornél Mundruczo, Edouard Louis e Kae Tempest

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 18 luglio 2021

Con la sospensione del lockdown la macchina dello spettacolo si è messa nuovamente in moto, in modo quasi frenetico e liberatorio. Ovviamente va meglio a chi poteva permetterselo (come i grandi teatri che hanno avuto sostanziosi rimborsi ministeriali per le attività, che però pochissimi hanno portato avanti, mentre altri li hanno furbescamente usati per ripianare i deficit, in rosso anche profondo, che avevano accumulato negli anni precedenti). Ora si può registrare un crescere indiscriminato delle iniziative, che il tempo e la pratica (e la reazione degli spettatori e dei botteghini) ci diranno se davvero costituiscano la creazione di un nuovo e significativo linguaggio artistico.

CHI È RIUSCITO a dare una impronta forte al proprio mandato di ricerca teatrale è stata questa volta una delle istituzioni più antiche, la Biennale di Venezia, che nella prima stagione di direzione di Ricci & Forte ha messo in programma qualcosa di davvero significativo (sebbene la parziale coincidenza temporale con la tornata veneziana del G20 abbia portato una presenza capillare di polizia, carabinieri e servizi che rendeva quanto meno inusuale l’atmosfera di una kermesse artistica). A parte lo spettacolo del polacco Warlikowski (cui è andato il leone d’oro alla carriera), maestro di buona fattura e sapiente modernità nel solco della tradizione, acclamato e richiestissimo in Francia e in Centroeuropa, è stata molto significativa la presenza di tre artisti (provenienti rispettivamente da Ungheria, Francia e Gran Bretagna) che in modi diversissimi e autonomi, indicano strade di grande interesse spettacolare e narrativo. E di indomabile senso critico rispetto all’oggi.
Kornél Mundruczo, regista anche cinematografico (una sua opera è in concorso a Cannes, dove è stato presente negli anni con quasi tutti i suoi film) è sulla scena davvero eversivo. Ogni sua opera lascia un segno nella memoria e nella coscienza, oltre che nella «percezione» (la sua Imitation of life vista alle Vie modenesi un paio d’anni fa, lascia aperte per lo spettatore questioni nodali sulla consapevolezza e sulla responsabilità).

A VENEZIA ha presentato all’aperto, nel parco della Bissuola alla periferia di Mestre, uno spettacolo di una decina di anni fa, coprodotto dalla sua compagnia Proton con i maggiori festival europei, che resta ancora scioccante e significativo. Hard to be a God tratta temi orribili e sconvolgenti, che pure qui paiono ineludibili. In un momento imprecisato di questi anni complessi, due grandi camion messi a elle, schermati da teloni trasparenti che possono restare chiusi o aprirsi come sipari, costituiscono la scena di questo viaggio coscienziale quanto «carnale». Vi si svolge la tratta di tre ragazze, che una arrogante e fatale kapò cerca di vendere al prezzo più alto, perché necessarie a una qualche congiura da far sfociare in scandalo, probabilmente politico. Ognuna di loro si difende con strumenti e in momenti diversi; la loro solidarietà si contraddice di continuo, il prezzo viene contrattato sopra i loro corpi, resta oscuro a quale finalità istituzionale debba assolvere quel commercio. Il paesaggio, umano e «politico» appunto, è repellente pur nella sua vaghezza. L’uso della «umanità» è solo apparente e strumentale, la solidarietà scatta solo, parziale, nel momento dell’aborto perpetrato su una di loro con selvaggia brutalità. E’ insomma un tunnel di orrori, assai concreti e per niente fantasy, quello che attraversa la moderna civiltà che si affanna attorno a quei due camion, anche se si dimena sul riff di una hit francese anni settanta, Mamy Blue: lotta per il dominio, peso del danaro, schieramenti e congiure in continuo movimento, promesse illusorie e impegni non mantenuti. In mezzo a quel panorama non manca qualche anima inutilmente «bella», come il giovane medico senza pantaloni sotto il giaccone; o lo strano osservatore che guarda quel verminaio senza restarne coinvolto, né fisicamente né moralmente. Non ci sono riferimenti diretti nello spettacolo alla situazione ungherese, anche se alla fine, provati da tanto «lavoro», gli attori, come i loro personaggi, se ne vanno esclamando con pacche sulle spalle «Basta, torniamocene in Ungheria, che lì va tutto bene», dando al pubblico un brivido che esplicita l’esatto contrario.

APPARENTEMENTE più «intimista», ma non meno esplosivo, è Edouard Louis, scrittore di romanzi molto legati alle sue esperienze, di grande successo anche in Italia. Sulla scena del teatro Goldoni, l’autore si racconta domandandosi Qui a tué mon père. Ma il racconto di quel monologo è molto ricco, non solo letterariamente, quanto anche per la forma scenica che ne elabora il regista Thomas Ostermeier con proiezioni, illustrazioni, particolari rivelatori che si susseguono sullo schermo di fondo, ma anche una corsa in macchina nella profonda provincia francese che accompagna il «riavvicinamento» tra lo scrittore e suo padre vecchio e malato. L’intervento del regista tedesco, direttore della Schaubühne berlinese, è discreto quanto efficace, la genialità dello scrittore che in prima persona si racconta sta quell’incrociarsi, liberatorio e fatale, che fa coincidere la sua realizzazione sessuale con la trasformazione del giudizio del padre, che dalla opposizione radicale alla omosessualità del figlio, finisce con l’accettarla quando vede il proprio corpo di rude operaio condannato da un incidente all’infermità, anzi ad una specie di morte civile per effetto i leggi e regole di cui si fanno vedere i responsabili: da Chirac a Hollande, da Sarkosy a Macron. Le loro leggi sociali portano l’anziano genitore a una obbligata nuova visione del mondo. Un racconto fatto dallo scrittore/performer senza retorica (il suo testo è andato in scena anche in Italia), anzi con una vitalità «positiva» che non esclude qualche scatenato rock ballato all’impazzata. Con la stessa forza con cui mostra nomi e volti decisivi della «modernità» francese di oggi.
Ultimo testimonial di questa possibilità del teatro oggi di raccontare in prima persona una condizione e una società, è l’inglese Kae Tempest. Poeta che ha scelto di accettare in sé il maschile e il femminile, e che i suoi versi grida e insinua nel cuore dell’ascoltatore, dando sonorità inusitate a sentimenti e consapevolezza di una lucidissima condizione, che rende possibile, magari evocando in soccorso figure della mitologia greca, individuare tutti gli orrori sociali e culturali che ci circondano e limitano, e usa quella ricerca sua di impossibile felicità come rivelazione del mondo. Il manifesto ne ha parlato diffusamente, anche da Venezia, e dai suoi testi sono stati tratti spettacoli di grande interesse anche in Italia. Alla Biennale (in questo caso davvero benemerita) questi tre artisti hanno testimoniato non solo la vitalità, ma anche quanto «necessario» possa rivelarsi il teatro, per acquisire e diffondere qualche chiarezza nella penombra morale e indistinta che ci circonda.

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