Cultura

Variazioni intorno alla fine, oltre il campo di terra rossa

Variazioni intorno alla fine, oltre il campo di terra rossaGeoff Dyer

Scaffale Geoff Dyer, «Gli ultimi giorni di Roger Federer», pubblicato da Il saggiatore

Pubblicato più di un anno faEdizione del 27 giugno 2023

Chi ha letto almeno un libro di Geoff Dyer saprà – anche solo sbirciando la copertina e il titolo: Gli ultimi giorni di Roger Federer (traduzione di Katia Bagnoli, Il Saggiatore, pp. 353, euro 25) – di non trovarsi dinanzi a un romanzo sul fuoriclasse svizzero e sul tennis, ma a qualcosa di più sfumato, di profondo, una porzione di mondo osservata dallo scrittore inglese per riflettere su noi e su questi giorni.

Quando si terminerà la lettura si resterà di nuovo stupefatti per la bellezza della prosa di Dyer e per come ci avrà condotti nei pressi della fine delle cose, alla ricerca dei finali, alla scoperta di quello che accade all’estro, alla creatività; quando il musicista, lo sportivo, l’artista, lo scrittore superano una certa soglia di attività, di tempo, e diventano preda di stanchezza, di logorio, di paura, e di qualcosa di più indefinito ma che diviene chiarissimo sotto la lente di ingrandimento di Dyer.

LO SCRITTORE SI DOMANDA e, di conseguenza, domanda ai lettori che cosa accade a un artista che invecchia. È in grado di raggiungere una nuova serenità e, quindi per certi versi, migliorare ancora? Offrire ancora un guizzo, un lampo? O invece si prepara a soccombere e s’aggira tra sé e il mondo in maniera stanca, avvicinandosi al finale della sua carriera, che non è altro che la prima immagine della morte.

Nel caso di un artista, o di uno sportivo, per esempio nel libro leggiamo di Borg, del suo ritiro precoce, potremmo mutuare l’attacco di una poesia di Barbara Coacci, di qualche tempo fa: «Una fine senza finale / ma una fine / annunciata da certi segnali », ecco Dyer, rintraccia quei segnali, stana la fine delle cose, che sta in un pensiero, in un gesto, manifestazioni quasi impercettibili che avvengono molto prima del finale. Pensiamo a Federer, al suo finale rimandato nel tempo, questa fine prolungata in maniera romantica da chi lo amava e da lui, nessuno voleva che si ritirasse, ma il buon vecchio Roger aveva cominciato a farlo qualche anno prima dell’ultimo celebrativo game e delle lacrime condivise con Rafa Nadal.

«LA FINE PUÒ ESSERE soltanto rimandata, non scongiurata, anche se a volte non è così definitiva come si era pensato, perché il finale si rivela essere il penultimo, il terzultimo», scrive Dyer, analizzando l’estensione del finale, la cosa che finisce ma poi in qualche modo prosegue, l’ultimo tiro che invece in qualche modo è destinato a ripetersi, almeno un’altra volta ancora. Dyer pone sul piatto della bilancia il suo entrare nella tarda età e gli ultimi sprazzi, più o meno brillanti, di artisti, pittori, calciatori, musicisti, tennisti che ha amato e che hanno recitato un ruolo importante nella sua vita, accompagnandolo e, in un certo qual modo, aiutandolo a diventare la persona e lo scrittore che è. Succede così, forse anche a noi, cresciamo con certi amori – sportivi, musicali, artistici – che ci formano, ci aiutano a diventare ciò che siamo, fino al nostro finale.

Il libro comincia, e forse non potrebbe essere altrimenti, con The end, l’ultima traccia del primo album dei Doors, passa per l’esaurimento di Nietzsche a Torino, alcune ultime canzoni di Bob Dylan e alla loro riscrittura, alla luce dei quadri dell’ultimo Turner, ai momenti prima del ritiro – giovanissimo – di Borg che riguarda anche McEnroe, a Federer, ovviamente, agli scrittori.

UN PALCOSCENICO, un ring, uno studio di registrazione o di un pittore, un campo in terra rossa o in erba, un divano, la nostra stanza da letto. Come sfruttare al meglio il tempo che ci rimane, si chiede Dyer, come gestire l’angoscia, come diluire l’ultimo bagliore in tante piccole luci. Un libro incantevole che non vorremmo finisse.

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