Van Gogh, lo sperimentale Getsemani
A Parigi, Musée d'Orsay, "Van Gogh à Auvers-sur-Oise Les derniers mois", a cura di Nienke Bakker ed Emmanuel Coquery 1890, i mesi finali, in cura dal dottor Gachet. L’omogeneità periodica fa della mostra un travolgente «unicum», nel segno del più ardito spingersi verso il pezzo irrelato di pura pittura
A Parigi, Musée d'Orsay, "Van Gogh à Auvers-sur-Oise Les derniers mois", a cura di Nienke Bakker ed Emmanuel Coquery 1890, i mesi finali, in cura dal dottor Gachet. L’omogeneità periodica fa della mostra un travolgente «unicum», nel segno del più ardito spingersi verso il pezzo irrelato di pura pittura
«Mi ha detto che bisogna lavorare tanto, audacemente, e non pensare affatto a quello che ho»: era il 20 maggio 1890. Vincent van Gogh, appena approdato ad Auvers-sur-Oise, scriveva subito al fratello per raccontargli il primo incontro con il medico che lo avrebbe preso in cura, il dottor Paul Gachet. Come prima terapia gli viene suggerita quella che gli è più naturale: dipingere. Van Gogh indubbiamente obbedisce. In due mesi realizza settantaquattro quadri, riprende a disegnare con sistematicità e convinzione e, grazie a Gachet, che era pittore amatoriale e possedeva un torchio, incide su rame per la prima e unica volta nella sua vita.
Rispetto al mettersi a lavorare «tanto», Van Gogh aveva preso dunque alla lettera l’indicazione. Ma da Gachet gli era arrivato anche l’invito a lavorare «audacemente», il che poteva risuonare come un’indebita intromissione medica dentro l’inviolabile fortino della creazione artistica. In realtà anche in questo caso Van Gogh avrebbe raccolto il suggerimento di colui che in breve tempo era diventato «una specie di altro fratello».
La mostra parigina, arrivata al Musée d’Orsay dopo la prima tappa ad Amsterdam, e dedicata all’ultima breve stagione dell’artista, è una sfolgorante rassegna in cui proprio audacia e sperimentalismo giocano un ruolo chiave: Van Gogh à Auvers-sur-Oise Les derniers mois, a cura di Nienke Bakker ed Emmanuel Coquery (fino al 4 febbraio). Non c’è sempre stato consenso sull’importanza del lavoro di Van Gogh a Auvers. Come registra Louis Van Tilborgh nel testo introduttivo al catalogo, era stato in particolare un intervento di Rudi Fuchs, direttore del Gemeentemuseum dell’Aja, in occasione della grande retrospettiva del centenario del 1990 al Van Gogh Museum, a rimettere in giusta luce quella stagione. Fuchs annotava che arrivando ad Auvers l’artista, «spinto da un entusiasmo irrefrenabile e forse anche dalla fretta», si staccava «dalle ultime convenzioni dell’Impressionismo», abbandonando ogni ricerca di armonia stilistica. Le singole parti dei quadri «acquisiscono una bellezza indipendente»: ogni frammento sfugge «al legame dell’insieme ed in questo modo si aprono nuove possibilità per l’arte del XX secolo».
Il Van Gogh che sbarca ad Auvers è infatti un artista che non teme di disunirsi, di rompere l’equilibrio delle sue opere, aggredendole con un segno pittorico forte e stenografico, creando contrapposizioni a volte violente di piani, agendo con molta libertà sul piano cromatico. Come ancora notava Fuchs sembra un artista che voglia rompere gli indugi, forse presentendo di non avere molto tempo davanti a sé.
Lo si sorprende a volte lasciare scoperte parti della tela, come accade nel meraviglioso Fermes à Auvers-sur-Oise, prima sua opera a entrare nel 1903 in una collezione pubblica, l’Ateneum Art Museum di Helsinki. Il cielo è reso con poche e veloci pennellate di azzurro tra vaste zone rimaste senza pittura, e va in forte contrasto con la baldanzosa invadenza dei tetti arancioni, quasi creature animate, o con lo spiovente verde che irrompe aggressivo da destra. In altri casi Van Gogh cerca un «tutto pieno» dove comprime, senza nessuna preoccupazione di armonizzarli, una quantità di spezzoni pittorici. Un escalier à Auvers-sur-Oise, del Saint Louis Art Museum, è un quadro stupefacente che al primo sguardo lascia la sensazione di un puzzle impazzito. Simile il contraccolpo davanti a Maisons à Auvers-sur-Oise arrivato dal museo di Boston: qui la pittura a tratti si scioglie, a tratti s’addensa spingendosi fin sul ciglio del caos.
Il Van Gogh che si proietta su nuove strade accentuatamente sperimentali è anche un Van Gogh che vive il ritorno al Nord quasi come una sconfessione di tanta modernità. Nel passaggio da Parigi aveva visto la grande tela di Puvis de Chavannes, a sviluppo tutto orizzontale, Inter artes et naturam, e ne aveva subito un’infatuazione. Più volte ne fa riferimento nelle lettere di quei mesi, sottolineando la dimensione di calma di quel dipinto: una dimensione magari agognata ma a lui quanto mai ignota. Ad Auvers per due volte dipinge il giardino della casa dove aveva lavorato Jean-François Daubigny, dimostrando un’affezione per il suo naturalismo così sentimentale e tenacemente ottocentesco. A uno dei due quadri appone in modo insolito anche una didascalia con scrittura un po’ infantile e quasi riconoscente: Le jardin de Daubigny.
Sono riferimenti apparentemente anacronistici che però Van Gogh si tiene stretti quasi rivestissero una funzione protettiva rispetto a percorsi sperimentali in cui vuole inoltrarsi. Il più notevole dei quali è certamente costituito dalla serie di dipinti in formato doppio quadrato, cioè 50 x 100. Si trattava di un formato fuori mercato, Van Gogh deve perciò costruirsi da sé i telai e taglia ordinatamente un rotolo avuto dal fratello, ottenendo tredici tele, che avrebbe dipinto tutte in orizzontale tranne una, il ritratto in verticale della figlia di Gachet al pianoforte. Cosa cercava Van Gogh lavorando in modo così determinato a questa serie di opere? Nelle lettere accenna a possibili combinazioni, come se pensasse a comporre dittici o trittici. Allineati nella sala dove ne sono stati straordinariamente raccolti ben undici, possono far pensare al progetto di un lungo fregio, in cui però ogni elemento va in netta discontinuità con quello vicino. Visti singolarmente hanno l’aspetto di schermi cinematografici all’interno dei quali si giocano violenti rapporti di forza. Van Gogh a più riprese, riferendosi a queste opere, fa ricorso all’aggettivo larges. Sono formati in cui trova una possibilità di larghezza e vastità che restituisca quella sensazione testimoniata in una delle ultime lettere a Theo, il 14 luglio: «Io per quanto mi riguarda sono completamente assorbito dalla distesa infinita di campi di grano contro le colline, grande come un mare».
Ma l’allargamento reso possibile dal formato double carré produce anche l’effetto conseguente di uno schiacciamento. «Soprattutto queste tele sono meno alte», sottolinea infatti Van Gogh al fratello. Ed è questo senso di compressione a legare la serie delle tele, dove l’orizzonte appare sempre schiacciato e i primi piani, anche i più lirici, sembrano di conseguenza dipinti sotto assedio. Le immagini tendono a perdere la loro decifrabilità al punto che nella concitazione dell’evento pittorico si ha la sensazione che i paesaggi siano sottoposti a una metamorfosi, trasformandosi in conglomerati popolati da forme animate.
Davanti a queste opere risulta davvero inesatta e persino scorretta l’interpretazione che ne fa proiezioni della condizione psichica di Van Gogh. Sono più semplicemente fatti pittorici di clamorosa intensità e bellezza, già spalancati sul Novecento in direzione di un Soutine o di un Bacon, e come tali vanno visti e rispettati.
Ad Auvers Van Gogh aveva ripreso con molta determinazione anche la pratica del disegno. Si era fatto mandare il manuale di studi di nudo di Charles Bargue («Se continuo a trascurare di studiare le proporzioni e il nudo mi troverò male in seguito. Che questo non ti sembri inutile o assurdo», scrive il 3 giugno 1890 a un Theo un po’ perplesso). Nello stesso tempo lavorava su fogli di Papier Ingres di grandi dimensioni sperimentando soluzioni inedite. Stendeva un tracciato leggero a matita sul quale andava con un segno nero a olio, molto marcato e movimentato. Con le sfumature di acquarello azzurro chiudeva lo spazio del cielo, ispirato in questa scelta dalle stampe giapponesi viste nei giorni di passaggio da Parigi, in occasione di una grande mostra dove erano esposti anche i paesaggi di Hokusai. Come sulle tele anche sulla carta dà luogo ad avventure visive intense, piene di contrasti e audaci. In una lettera di qualche mese prima aveva detto di cercare «la bellezza del Getsemani». Forse Auvers ha rappresentato, in ogni senso, il suo Getsemani.
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