La cosa più bella dell’Educazione sentimentale – osservava Proust in un saggio sullo stile di Flaubert – non è una frase, ma uno «spazio bianco»: un «enorme bianco», che si apre fra gli ultimi due capitoli del romanzo per suggerirci che d’un tratto, nella vita di Frédéric Moreau, sono trascorsi vent’anni. Una simile accelerazione può lasciare interdetto il lettore, che fino a quel momento ha visto scorrere gli eventi secondo un ritmo narrativo per lo più omogeneo e all’improvviso sente spalancarsi sotto la pagina l’abisso del tempo. Eppure lo spazio bianco serve proprio a questo: possiamo considerarlo come un paradossale strumento di punteggiatura, che consente allo scrittore di sorprenderci e di raccontarci tutto senza dire nulla.

Che l’uso del bianco abbia legami di parentela con il tempo, in realtà, non ci stupisce affatto, dal momento che anche in un diario la sua presenza segnala per consuetudine lo stacco cronologico fra le diverse giornate e sessioni di scrittura. A dare ascolto a Simone de Beauvoir sarebbe anzi in questa zona intermedia, fatta di «cose» taciute, che andrebbe a celarsi ciò che è davvero importante per il diarista. E anche quando leggiamo un’autobiografia, secondo Sergej Ejzenštein, dovremmo tener presente che la memoria di una vita si riversa sul foglio in modo frammentario, come un film poco «idoneo» alla distribuzione, costellato di scene disconnesse, «vuoti» e «pezzi spariti» in cui si annidano i segni invisibili di una rimossa verità.

Un precedente in Fielding
Ancor meno sorprendente, in questa prospettiva, è l’impiego dello spazio bianco nella finzione romanzesca. Molto prima di Flaubert, Fielding aveva già rivendicato al narratore del Tom Jones il diritto di far cadere nel vuoto, tra un capitolo e l’altro, le epoche prive di interesse, mentre Sterne, nel Tristram Shandy, aveva lasciato un’intera pagina bianca per invitare il «gentile lettore» a figurarsi da solo le bellezze di un personaggio troppo «concupiscibile».

Il bianco, diceva Landolfi, è il colore sfacciato del pudore: con il suo silenzio allusivo, corre spesso in soccorso al romanziere che arretra davanti alla rappresentazione dell’eros. Ma più che alla decenza o alla censura, la dinamica del bianco va ricondotta a una precisa tradizione retorica che insegna a raggiungere il massimo risultato attraverso il minimo sforzo di una reticenza ben piazzata.

Il silenzio mantenuto dall’oratore davanti a temi di estrema e solenne gravità – ci assicura il trattato Sul sublime dello Pseudo-Longino – è più efficace «di qualunque discorso». Perché un’idea «nuda» e «priva di parole», oltre a destare l’ammirazione dell’uditorio per il mistero dell’ineffabile, ci invita in qualche modo a diventare protagonisti e collaboratori della creazione artistica. Attraverso «l’esposizione incompleta», ribadisce Nietzsche in Umano troppo umano, chi guarda – o legge – una scena viene spinto a completare con il proprio pensiero quanto è stato soltanto accennato. I problemi riguardano più che altro chi scrive e cominciano quando ci si rende conto che il «non dire», come avvertiva Kipling, è molto più difficile del «dire».

Esiste un’unica arte, affermava Stevenson lamentandosi della verbosità di Balzac, «l’omissione»: se riuscissimo davvero a possedere i suoi segreti e sapessimo come praticarla, saremmo in grado di ricavare un capolavoro da una notizia di giornale stipata di inutili dettagli. E forse anche per questo la letteratura europea, soprattutto fra Otto e Novecento, non ha mancato di approfondire le risorse ancora inesplorate di una tecnica così impervia, arrivando ad offrirci un prontuario di istruzioni per impiegarla su vasta scala.

Mentre Virginia Woolf si augurava che Trollope lasciasse ogni tanto un «blank» – un vuoto – per ravvivare la monotonia delle sue esangui cronache di «fatterelli», Mallarmé insisteva sulla necessità di amplificare nella versificazione l’uso degli spazi bianchi, che esaltano l’essenzialità della parola, la indirizzano verso l’assoluto e trasformano la pagina lirica in uno «spartito». E se Marinetti nel Manifesto tecnico raccomandava ai futuristi di abolire la punteggiatura o di sostituirla con uno spazio bianco più o meno lungo, che fosse indizio dei «riposi» o dei «sonni» dell’intuizione poetica, la teoria pittorica di Kandinskij ci ricorda che il bianco, anche sulla tela, ha il potere di trasportarci in una dimensione superiore: lo percepiamo come un «non-suono», che interrompe lo sviluppo di un tema o di una frase e li rafforza con un silenzio originario, «ricco di potenzialità».

Se il bianco può dunque equivalere alla pausa musicale, si capisce allora perché Debussy dichiarasse che il silenzio, in Pelléas e Mélisande, funziona come un inusuale «agente d’espressione», capace di rappresentare le ambiguità dei personaggi e di rinvigorire al tempo stesso la tenuta melodrammatica delle singole battute. Lo spazio bianco riceve la sua specifica forza comunicativa dal contrasto con gli elementi in precedenza accumulati sulla partitura. E può persino accadere – come nel teatro di Beckett – che la situazione si ribalti e che sia il silenzio a predominare sulla scena. Tutti gli sforzi del drammaturgo, in Aspettando Godot, sono infatti rivolti a sottolineare il «valore» delle pause degli attori, a incrementare il mutismo delle attese e a costruire dialoghi che con i loro nonsense puntano solo a scongiurare l’incombente minaccia del nulla. Questa stessa minaccia, dirà poi Raymond Carver, deve circolare anche nel «sistema sanguigno» del racconto minimalista, che si regola soprattutto in base a quanto resta fuori dall’«azione visibile» della storia e galleggia, «implicito», sotto la superficie cutanea del testo.

Parlerà il silenzio
C’è un bellissimo racconto di Karen Blixen, intitolato per l’appunto La pagina bianca, dove un’avvizzita cantastorie, discendente di Sheherazade, ci consegna la chiave di qualsiasi narrazione ben congegnata. Se il narratore è fedele alla propria storia – proclama la «vecchia strega» – «alla fine parlerà il silenzio»: i racconti più belli sono proprio quelli che non si leggono nei libri stampati, bensì sulla «pagina bianca». Ma per fare in modo che il silenzio faccia risuonare la propria voce senza ridursi a un semplice vuoto, bisogna seguire gli accorgimenti delle monache portoghesi di Velho, che in una galleria del loro convento esibivano una lunga teoria di lini, utilizzati da gentildonne devote come lenzuolo durante la prima notte di nozze. Ogni tela, con le sue macchie sbiadite e multiformi, ha un intrigo, un destino o un oroscopo inesaudito da raccontare. E tuttavia ad attirare l’attenzione dei pellegrini e a richiamarli in sosta è soprattutto un lino in particolare, immacolato e senza nome, inserito nella fila come una mi pagina bianca. «Voi che volete sentir raccontare storie – conclude la narratrice – guardate questa pagina»: il suo niveo candore, incastonato in una sequenza di parole, è capace di scatenare le più profonde meditazioni.