«Uno sguardo dal ponte», nell’invivibile spazio tra giustizia e morale
A teatro Massimo Popolizio mette in scena il testo di Arthur Miller e interpreta il protagonista Eddie Carbone, «padre padrone» travolto dalla passione per la giovane nipote
A teatro Massimo Popolizio mette in scena il testo di Arthur Miller e interpreta il protagonista Eddie Carbone, «padre padrone» travolto dalla passione per la giovane nipote
Tutto il dramma borghese del Novecento tende alla tragedia, si potrebbe dire con qualche inevitabile approssimazione. Vuol dire coniugare quei drammi familiari spesso poco interessanti con l’empito dei grandi conflitti morali. Non fa eccezione Uno sguardo dal ponte che Arthur Miller scrisse a metà degli anni cinquanta del secolo scorso, dapprima senza grande successo a Broadway ma poi sbarcato trionfalmente in Europa con le regie di Peter Brook e Luchino Visconti, e Raf Vallone protagonista anche nel film girato da Sidney Lumet. Dramma di una passione distruttiva quanto fatale, con una venatura sociale assicurata dall’ambientazione fra gli immigrati siciliani di Brooklyn – potremmo sentirci l’eco di una Fedra trasposta al maschile nel protagonista Eddie Carbone.
UN BRAV’UOMO era, dice di lui l’avvocato Alfieri, il primo a presentarsi sulla scena per evocare una vicenda che sappiamo subito essere già conclusa. La sua funzione somiglia a quella del coro greco, osserva non a caso Massimo Popolizio che è regista e protagonista nell’esuberante spettacolo visto al teatro Argentina (prodotto dalla compagnia Umberto Orsini insieme a Ert e Teatro di Roma). Voce narrante, l’anziano avvocato, chiamato appunto a dare un’impronta epica e straniante al racconto, ma anche rappresentante di quell’istituzione, la giustizia delle leggi, in cui per primo non crede, lì in quell’angolo della metropoli americana. E dunque motore di una vera e propria azione parallela del dramma che ha per tema conduttore «la legge». Siamo del resto in anni di maccartismo e di caccia agli immigrati clandestini.
La redazione consiglia:
Popolizio nel Furore d’AmericaLA REGIA di Popolizio giustamente tira verso il melodramma che rappresenta il vero sfondo culturale, o forse meglio verso il musical inteso come spettacolo più «americano» del secolo passato, però con una speziatura brechtiana da «opera da tre soldi», di cui sembra di percepire il suono in quei Songs alla Kurt Weil che irrompono nel lampeggiante inizio sulla scena; anche se poi sono soprattutto i ballabili d’epoca a formare la colonna sonora. La scena di Marco Rossi accatasta impersonali mobili domestici di un uniforme colore grigio, più volte ricomposti dagli stessi interpreti. Su di essa incombe un traliccio metallico allusivo del ponte del titolo da cui a tratti arriva lo sferragliare di un treno, monito di un limite non solo geografico come il risuonare delle sirene navali che confina quegli uomini nei loro mestieri di fatica, scaricatori e facchini.
Massimo Popolizio la riempie tutta con la sua indubitabile presenza scenica, e accanto a lui non sfigurano Michele Nani, la ragazza Gaja Masciale perfetta nel muoversi sul filo di un’innocenza ormai perduta, la più trattenuta Valentina Sperlì, i due cugini diversi Raffaele Esposito e Lorenzo Grilli. Eddie Carbone va incontro alla sua sorte che già sappiamo segnata. Sono stanco, sono le sue ultime parole. Ma ormai ha preso il sopravvento l’altra storia, quella che fin dall’inizio l’avvocato ha cercato di far balenare. Di cui in fondo Eddie Carbone è stato solo il pretesto.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento