Tutto il dramma borghese del Novecento tende alla tragedia, si potrebbe dire con qualche inevitabile approssimazione. Vuol dire coniugare quei drammi familiari spesso poco interessanti con l’empito dei grandi conflitti morali. Non fa eccezione Uno sguardo dal ponte che Arthur Miller scrisse a metà degli anni cinquanta del secolo scorso, dapprima senza grande successo a Broadway ma poi sbarcato trionfalmente in Europa con le regie di Peter Brook e Luchino Visconti, e Raf Vallone protagonista anche nel film girato da Sidney Lumet. Dramma di una passione distruttiva quanto fatale, con una venatura sociale assicurata dall’ambientazione fra gli immigrati siciliani di Brooklyn – potremmo sentirci l’eco di una Fedra trasposta al maschile nel protagonista Eddie Carbone.

UN BRAV’UOMO era, dice di lui l’avvocato Alfieri, il primo a presentarsi sulla scena per evocare una vicenda che sappiamo subito essere già conclusa. La sua funzione somiglia a quella del coro greco, osserva non a caso Massimo Popolizio che è regista e protagonista nell’esuberante spettacolo visto al teatro Argentina (prodotto dalla compagnia Umberto Orsini insieme a Ert e Teatro di Roma). Voce narrante, l’anziano avvocato, chiamato appunto a dare un’impronta epica e straniante al racconto, ma anche rappresentante di quell’istituzione, la giustizia delle leggi, in cui per primo non crede, lì in quell’angolo della metropoli americana. E dunque motore di una vera e propria azione parallela del dramma che ha per tema conduttore «la legge». Siamo del resto in anni di maccartismo e di caccia agli immigrati clandestini.

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Popolizio nel Furore d’AmericaEcco dunque un ritratto di famiglia in un interno con lui, Eddie Carbone, un po’ padre padrone che sempre meno riesce a tenere a freno la passione, insana per i più, per la disinvolta nipote diciassettenne e la moglie che ha capito tutto, prima ancora di lui. E quando gli piombano in casa i due cugini, appena arrivati dalla Sicilia ancora con la loro lingua, il dramma della gelosia è pronto a esplodere, con sospetti di omosessualità che poi diventano accuse oltraggiose per il più giovane dei due, pasolinianamente troppo biondo, troppo fuori dai canoni maschili, per il quale l’America rappresenta una definitiva scelta di vita e quella vita vuol viverla anche con i suoi balli e le sue canzoni.

LA REGIA di Popolizio giustamente tira verso il melodramma che rappresenta il vero sfondo culturale, o forse meglio verso il musical inteso come spettacolo più «americano» del secolo passato, però con una speziatura brechtiana da «opera da tre soldi», di cui sembra di percepire il suono in quei Songs alla Kurt Weil che irrompono nel lampeggiante inizio sulla scena; anche se poi sono soprattutto i ballabili d’epoca a formare la colonna sonora. La scena di Marco Rossi accatasta impersonali mobili domestici di un uniforme colore grigio, più volte ricomposti dagli stessi interpreti. Su di essa incombe un traliccio metallico allusivo del ponte del titolo da cui a tratti arriva lo sferragliare di un treno, monito di un limite non solo geografico come il risuonare delle sirene navali che confina quegli uomini nei loro mestieri di fatica, scaricatori e facchini.
Massimo Popolizio la riempie tutta con la sua indubitabile presenza scenica, e accanto a lui non sfigurano Michele Nani, la ragazza Gaja Masciale perfetta nel muoversi sul filo di un’innocenza ormai perduta, la più trattenuta Valentina Sperlì, i due cugini diversi Raffaele Esposito e Lorenzo Grilli. Eddie Carbone va incontro alla sua sorte che già sappiamo segnata. Sono stanco, sono le sue ultime parole. Ma ormai ha preso il sopravvento l’altra storia, quella che fin dall’inizio l’avvocato ha cercato di far balenare. Di cui in fondo Eddie Carbone è stato solo il pretesto.