«Non vogliamo il pugno duro di cui ha parlato il rettore, vogliamo che non ci siano più professori violenti. E questi non si contrastano con le sanzioni, ma rieducando: l’università deve cambiare strutturalmente». Così urlano le studentesse dell’Università di Torino a una settimana dall’esplosione di quello che per molti è già un Me too. Martedì scorso Non una di meno e Studenti Indipendenti hanno interrotto il Senato accademico portando in Ateneo le testimonianze di ragazze e donne che raccontano sessismo e maschilismo nelle aule torinesi. Cento risposte raccolte con un questionario anonimo messo online, riguardante in generale il fenomeno delle molestie, dai due gruppi che vogliono denunciare un intero sistema che i vertici universitari torinesi non riescono a vedere.

SI STA PARLANDO MOLTO in questi giorni dei singoli casi, uno riguarda la sospensione di un mese per un docente di Filosofia, arrivata dopo le indagini del consiglio disciplinare partite ad agosto dopo varie segnalazioni sul docente, accusato di comportamenti molesti e scambi inappropriati di messaggi. L’altro ha al centro Giancarlo Di Vella, ex direttore della scuola di medicina legale, indagato per violenza sessuale, stalking e atti persecutori da alcune studentesse e studenti; casi di violenza emersi a seguito di un’indagine, partita due anni fa, sui presunti attestati falsi per permettere l’accreditamento della scuola di medicina.

MA QUESTI, secondo gli studenti che si sono trovati di nuovo ieri, primo giorno di lezioni del nuovo semestre, non sono casi isolati: «Non vogliamo riferirci alla logica della ricerca di mele marce o caccia alle streghe, ma all’intero modello universitario, un sistema che promuove competizione, carrierismo ed elitarizzazione all’interno di tutta l’università ed è questo che legittima violenze di genere e molestie», hanno denunciato gli appartenenti alla formazione studentesca comunista Cambiare rotta, che ha indetto uno sciopero dalle lezioni in segno di protesta.

LA DIFFICOLTÀ nel denunciare i soprusi è data anche dalla paura di ripercussioni, sia nella vita privata che in quella accademica: vedersi rifiutare una tesi, un percorso di ricerca o un dottorato sono più che semplici timori. L’aria che si respira in molte facoltà è pesante: «Abbiamo docenti per lo più maschi, a filosofia anche gli studenti sono a maggioranza maschile, questi si sentono legittimati dall’alto, essendoci un sistema che non combatte atteggiamenti di questo tipo», denunciano le studentesse. La sensazione generale per gli universitari è quella di una mancanza di tutela tale da non poter fare un passo avanti ed esporsi. Si aggiunge a tutto questo anche un impianto di regole vecchio, non in grado di leggere i fenomeni attuali. Il testo sulla base del quale si dispongono le sanzioni disciplinari è del 1933, mancano del tutto riferimenti a molestie e violenze sessuali, ma si parla di un generico danno all’immagine dell’università.

IL RETTORE dell’università, Stefano Geuna, ha annunciato un cambio di passo, prendendo molto seriamente quanto sta avvenendo nel mondo accademico, ma che non riguarda solo docenti e ricercatori, ma che coinvolge anche gli studenti, come denunciano le studentesse. «La non denuncia è un problema, faremo delle attività per far capire che chi denuncia ha delle tutele, anche se sappiamo benissimo che in questi casi non è semplice», ha detto il rettore, annunciando corsi specifici di formazione per i docenti su questi argomenti. Per il rettore gli strumenti ci sono, serve applicarli. All’università di Torino servizi specifici come il sostegno legale e psicologico possono essere attivati anche dopo le denunce allo sportello antiviolenza, il primo in Italia nel suo genere aperto nel 2019. Uno spazio che ogni anno raccoglie tra le 100 e 150 denunce e, secondo i dati, circa il 10% riguarda l’ambito sessuale.

UN SOMMERSO che rispecchia quella che è la situazione generale che riguarda le violenze sessuali e le molestie: lo dicono da sempre i centri antiviolenza, si fa fatica a denunciare per paura di conseguenze, ma anche perché si ha paura di non essere sufficientemente protette. I numeri delle mancate denunce, secondo alcuni studi, superano il 50% raggiungendo anche il 60% (dati del ministero della Salute). Accanto il dato impietoso delle archiviazioni: alle donne spesso non si crede e i pregiudizi fermano le azioni penali.