Uniti, aperti e lontani dal Pd
C'è vita a sinistra Piuttosto che confrontarsi con una società in movimento, ci si è chiusi nei soliti circoli. Il voto nei comuni può essere l’occasione per costruire una nuova storia, aperta a tutti
C'è vita a sinistra Piuttosto che confrontarsi con una società in movimento, ci si è chiusi nei soliti circoli. Il voto nei comuni può essere l’occasione per costruire una nuova storia, aperta a tutti
C’è tanta vita a sinistra, ma non c’è una politica. La questione posta da Norma Rangeri naturalmente non riguarda soltanto l’Italia. La sinistra è in crisi in tutta Europa. La straordinaria operazione di egemonia culturale lanciata oltre trent’anni fa dal liberismo ha raggiunto oggi il massimo grado di successo. L’obiettivo dell’Europa a guida Merkel è demolire la costruzione del welfare e di conseguenza ridurre all’irrilevanza la social democrazia europea, ed è esattamente quanto sta accadendo, con la collaborazione dei leader socialisti, sorprendente e perfino entusiastica, come nel caso del nostro Renzi.
Le poche forze che hanno cercato di ereditare la rappresentanza sociale abbandonata dai socialisti, come Syriza, Podemos, Sinn Fein o la Linke, sono circondate e assediate da un sistema politico che ormai gravita sull’asse di una perenne grande coalizione, e attaccate con violenta astuzia da un sistema mediatico mai nella storia così ben controllato dai poteri dominanti. In Italia, spesso laboratorio del peggio in politica, il processo è andato oltre. Oggi la contesa politica da noi si svolge all’essenza fra varie forme di populismo di destra. Da una parte il lepenismo in salsa padana di Salvini, dall’altra il renzismo, che è la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi e con l’appoggio decisivo del berlusconismo residuale, nello schema continentale di una grande coalizione de facto.
L’ultima e più interessante forma di populismo è il Movimento 5 Stelle che è, per farla breve, un movimento geneticamente di sinistra alla base, ogni volta modificato da un vertice di destra estrema. Una contraddizione che finirà per esplodere. Ogni volta che la base del movimento si sposta su una critica radicale del liberismo, Grillo e Casaleggio intervengono, riportandolo nell’ambito dell’ultra liberismo nazionalista, dalle parti di Farage e ora addirittura del fascista Orban.
In questo quadro i milioni d’italiani di sinistra hanno elaborato diverse forme di resistenza. La maggioranza ormai non va a votare, una parte soprattutto di giovani vota Grillo chiudendo un occhio sugli anatemi contro i rifugiati e l’estatica ammirazione di Orban, una parte specialmente di anziani continua a votare Pd chiudendo entrambi gli occhi e soltanto per evitare un governo Salvini. A tutti costoro bisognerebbe saper parlare con il linguaggio della nuova sinistra di Syriza e Podemos. Che cosa impedisce allora qui e ora di seguirne le orme? L’assenza di giovani leader carismatici del peso di Alexis Tsipras e Pablo Iglesias è solo un elemento, il più ovvio, e forse serve anche a mascherare altro. Per esempio il fatto che la sinistra radicale italiana non sembra in grado, neppure oggi sulle colonne del manifesto, di fare i conti con la propria storia.
Rispetto alla sinistra greca radicale e spagnola, quella italiana è partita con un enorme vantaggio e condizioni favorevoli. Nella prima parte degli anni Novanta Rifondazione Comunista poteva contare su un ampio consenso elettorale, fino al 9 per cento, mezzi economici e audience mediatica sconosciuti ad altre esperienze. Per giunta in Italia, dal 2001 in poi, si sono sviluppati movimenti di massa unici per dimensioni e partecipazione in Europa e nel mondo, dalle giornate di Genova ai social forum, al movimento per la pace alle grandi manifestazioni sindacali della Cgil di Cofferati, e poi ancora i girotondi, il popolo viola, il movimento referendario per i beni comuni.
Al contrario di Syriza e Podemos, che hanno formato attraverso le lotte sociali i loro giovani gruppi dirigenti e le nuovi basi, la sinistra radicale ha sempre avuto con i movimenti una relazione aristocratica, da ceto politico minacciato, con qualche maldestra velleità dirigista che è presto fallita e ha lasciato il posto a una crescente diffidenza. Altri movimenti di massa, per esempio le mobilitazioni anti corruzione e l’antiberlusconismo, sono stati giudicati con disprezzo dalla sinistra radicale italiana, per questo spesso coccolata dall’apparato mediatico berlusconiano. In definitiva i movimenti che hanno segnato la nascita della nuova sinistra radicale in Grecia, Spagna e Irlanda, sono gli stessi che ne hanno decretato il declino in Italia.
Piuttosto che allargare gli orizzonti, cambiare linguaggi e magari volti, confrontarsi insomma con una società in movimento, si è preferito rinchiudersi nei soliti circoli di dibattito e rinfocolare risse ideologiche spesso incomprensibili. Il tutto accompagnato da una comunicazione politica schizofrenica: da un lato critiche sempre più feroci alla deriva «di destra» delle varie sigle eredi del Pci (Pds, Ds, Pd); dall’altro una pratica di compromessi e alleanze sempre più imbarazzanti con il peggio del ceto politico di centrosinistra, lo stesso che alla fine ha prodotto “naturalmente” il fenomeno Renzi. Questa stagione non è ancora finita e sembra anzi perpetuarsi all’infinito.
Nessuno stupore dunque che milioni di astensionisti giudichino ancora poco credibile l’offerta di una nuova forza unitaria a sinistra del Pd. La quale peraltro, incredibilmente, non esiste ancora. Dopo il tentativo certo pieno di limiti, ma generoso dell’Altra Europa, con le ultime elezioni regionali siamo riusciti nel capolavoro di sette simboli in sette regioni: un passo avanti e due indietro. Il voto nelle città alle porte è forse l’ultimo treno utile per chiudere una storia di divisioni minoritarie e costruirne una nuova, unitaria ma aperta a tutti, con un reale progetto di governo.
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