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Ungaretti lettore di Vico polemico con Croce

Divano La rubrica settimanale di arte e società. A cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 5 mesi faEdizione del 14 giugno 2024

Nominato professore di Letteratura italiana presso l’Università di San Paolo, ha inizio nell’anno 1937, e durerà fino all’estate del 1942, il lungo soggiorno brasiliano di Giuseppe Ungaretti. «Si soffoca dal caldo:/L’equatore è a due passi./Non penò poco l’Europeo a assuefarsi/Alle stagioni alla rovescia», lamenta.

Tuttavia gli anni in Brasile furono fervidi di studi: «In Brasile, faccio il professore, e insegno, e mi occupo soprattutto di studiare gli autori italiani. Studio Dante, studio Manzoni; altri scrittori italiani, Boccaccio, quasi tutto il mio tempo è consacrato a questi studi». E aggiunge: «non riesco a fare poesia. Mi ci sono messo tante volte, in Brasile, ma non ho potuto scrivere un solo verso. Non so perché».

Dunque indagini, lezioni, conferenze che ambiscono ad un riesame complessivo della letteratura italiana, ovvero del suo lascito. Una ricognizione critica intesa ad una valutazione del suo ‘portato’ per come si attesta in rapporto, scrive, a «tutta l’ultima poesia italiana d’oggi, nata nel 1917, in trincea, con il Porto Sepolto». Come dire: un esame di Ungaretti sulla situazione attuale della poesia italiana che Ungaretti medesimo afferma di aver inaugurato vent’anni fa.

Nel giugno del 1937, a prolusione del proprio corso universitario, tiene due conferenze dedicate all’opera di Giambattista Vico. La prima delle due descrive e ragiona la posizione di Vico da un punto di vista storico, nel pensiero e nei movimenti della sua epoca. La seconda affronta il tema della Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi, come recita il titolo. Pur tenendo puntualmente sott’occhio la pagina vichiana, è in realtà alla Estetica di Benedetto Croce che Ungaretti volge il suo sguardo polemico: «Croce che ha scritto una trentina d’anni fa un trattato d’estetica considerato anche oggi, e non solo in Italia, come l’ultima parola in tale materia, procedendo dal Vico pone il principio che il fatto artistico risulta da un’identità fra intuizione e espressione».

Ma Vico, obietta Ungaretti, ha in primo luogo, basato le sue argomentazioni sull’arte sui concetti di fantasia e di memoria. Che Croce, per così dire, elida quei due fondamenti costitutivi della estetica di Vico e li faccia evaporare sussumendoli in intuizione e espressione quasi senza residui è, secondo Ungaretti, non solo un limite della lettura crociana di Vico, ma una scelta carica di conseguenze negative riguardo alla capacità di Croce a intendere il senso delle ricerche poetiche in corso dopo il 1917, e la loro ‘verità’. «La verità, la verità che chi ha praticato l’arte dovrebbe conoscere bene», eccepisce Ungaretti, «è che non c’è fatto artistico, che non c’è identità fra intuizione e espressione se la fantasia, e la memoria, funzioni necessarie dell’intuizione, non divengono funzioni dell’espressione».

Scansando memoria e fantasia, Croce disconosce ad un tempo l’importanza degli elementi esecutivi che consentono la ‘fattura’ dell’opera d’arte, gli aspetti d’un ‘fare’ operativo, quello strumentario ‘tecnico’ indissolubilmente connesso alla realizzazione dell’opera. Ungaretti, sulla scorta del concetto di memoria e di fantasia elaborato da Vico, si rivolge a Croce opponendogli che l’elemento d’ordine formale e l’elemento d’ordine fatturale vanno in poesia di pari passo e l’uno sta dentro l’altro, e che i procedimenti operativi sono la cosa stessa e medesima dell’opera realizzata. Per cui io, Ungaretti, poeta, che la poesia penso e compongo non saprei distinguere, come tu Croce fai, un aspetto spirituale da un aspetto operativo.

Vico insegna, insiste Ungaretti, che la scaturigine della fantasia sta nella memoria. La memoria accumula in noi e in noi conserva sensazioni ed emozioni. Istituiamo relazioni tra i dati della memoria impressi in noi e li componiamo secondo regole che non sono quelle che presiedono alla diretta esperienza, bensì quelle di una rielaborazione fantastica, ossia di una rimemorazione in assenza. Qualcosa di sensorialmente non percepibile, ma depositato e vivido entro di noi, che assume nella nostra mente i tratti di alcunché di ripetibile, ovvero di componibile secondo una rappresentazione.

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