Florbela Espanca, regina dell’Alentejo
ITINERARI CRITICI Un percorso di letture e recenti traduzioni italiane della poeta portoghese che si suicida nel dicembre del 1930 a Matosinhos nella notte del suo trentaseiesimo compleanno. Dopo la morte, la sua popolarità è inarrestabile. «Questo mio corpo sfamerà le rose» (InternoPoesia) è una raccolta di versi che comprende quattro sue sillogi . Un’antologia bilingue per Tab edizioni ricostruisce i vincoli con la cultura lusitana e il dialogo con alcune autrici tra cui Ada Negri, con utili notizie bio-bibliografiche.
ITINERARI CRITICI Un percorso di letture e recenti traduzioni italiane della poeta portoghese che si suicida nel dicembre del 1930 a Matosinhos nella notte del suo trentaseiesimo compleanno. Dopo la morte, la sua popolarità è inarrestabile. «Questo mio corpo sfamerà le rose» (InternoPoesia) è una raccolta di versi che comprende quattro sue sillogi . Un’antologia bilingue per Tab edizioni ricostruisce i vincoli con la cultura lusitana e il dialogo con alcune autrici tra cui Ada Negri, con utili notizie bio-bibliografiche.
Quando passeggia lungo Avenida Boavista, l’incanto quotidiano si rinnova. Le mimose d’oro a inseguire la primavera, le peonie sorridono e infine le magnolie, bianche rosa e lilla, sembrano vestite in attesa di un ballo, le gonne così lunghe da toccare terra. È il 21 di gennaio del 1930 e Florbela Espanca, cammina lungo quel viale così esteso che attraversa Porto. Morirà pochi mesi dopo, nella notte tra il 7 e l’8 di dicembre. A 36 anni. Molte sono le riflessioni e gli appunti di quel 1930 e che questa potente, delicatissima e irriverente poeta portoghese, consegna in trentadue frammenti alle pagine del suo diario, pubblicato postumo solo nel 1981. Emerge il ritratto di una osservatrice costantemente innamorata – non solo perché si sposa tre volte – e addolorata da un mondo scadente – che da lì a poco in Portogallo avrebbe anche conosciuto la dittatura di Salazar.
Questa donna, commossa da ogni ingiustizia la circondasse, conosceva i segreti dei fiori, della bellezza e dell’anima come il suo nome custodiva. Flor Bela d’Alma da Conceição, nasce nel 1894 nell’Alentejo, a Vila Viçosa, e si suicida a Matosinhos nel giorno del suo compleanno. In vita, licenzia due sillogi, Livro de Mágoas (1919) e Livro de soror saudade (1923), mentre la terza, Charneca em flor, viene data alle stampe poche settimane dopo la sua morte cui segue anche Reliquiae.
UTILE RILEGGERE, insieme ai racconti e ai carteggi, le pagine del suo Diário do Último Ano, a conferma dell’inquieto colloquio dei suoi versi insieme allo slancio di una solitudine verticale sempre alla ricerca dell’altro, sia esso umano che non umano, un panteismo pagano che la rende poeta intensa, inclassificabile, guardata con sospetto e celebrata solo dopo la morte.
«Vivere non è fermarsi: è rinascere continuamente», scriveva Espanca, che nel 1919 era tra le 14 donne iscritte nella facoltà di Diritto della Università di Lisbona. In quel momento è già scrittrice, entra in contatto con Américo Durão e altri poeti e scrittori a lei contemporanei, legge António Nobre e diversi autori francesi, ad esempio Victor Hugo e italiani in traduzione tra cui Giacomo Leopardi, Ada Negri, Sibilla Aleramo. L’evento molto speciale è tuttavia rileggere lei, Florbela Espanca, e le occasioni finalmente non mancano anche nel nostro paese. Esce ora, per le raffinate cure letterarie di Graziano Graziani – che firma una efficace introduzione – un volume con testo a fronte che si intitola Questo mio corpo sfamerà le rose (InternoPoesia, pp. 227, euro 15) e che comprende una consistente selezione dei suoi versi tratti dalle sue quattro sillogi.
È una edizione che permette di presentare la poeta a chi ancora non la conosce, di mostrare le sue parole nude e assetate come lo erano gli alberi dell’Alentejo, terra struggente, abitate come i vicoli di Évora da cui sbucavano violette e profili di fantasmi. Di pronunciare ancora una volta, per chi già la conosce, l’amore come luogo di perdita ma anche di sgomento umbratile irrinunciabile. Per Espanca già dai suoi primi componimenti nel suo esordio del 1919, Libro d’angosce, l’erranza amorosa è infatti senza esito, insieme ai «Baci d’amor, che van di bocca in bocca,/ come i viandanti che van di porta in porta». Nella raccolta del 1923, Soror Saudade, la ricerca offre una conversazione più fertile e le faccende amorose diventano altrettanti libri, condivisi con l’amante e con un tenore universale per chi ne leggerà i versi. E il dialogo si fa incessante, vocato alla conoscenza del sé, di un dolore all’apparenza senza ragione che oscilla tra mistica e chimera: «Sei un mare senza onde, un mare morto,/ strisci per terra, come un mendicante», eppure – qualche poesia più avanti – scrive «Ma non ti invidio questa indifferenza,/ che andare per il mondo senza amare/ è peggio di ogni altra sofferenza». Perché Espanca ha una tristezza puntuta, la si vede anche appena osservando alcune fotografie in cui frontale ha degli occhi quasi baluginanti di malinconia. Oltre a visitare il lirismo destinale e l’afflato spirituale dell’epoca in cui ha vissuto, e una frana di dolore insuperabile, riesce nell’esplorazione del suo desiderio erotico; ne accenna nella poesia «Incostanza» in cui certo l’amore è ineluttabilmente legato alla menzogna ma ogni abbandono risponde a una nascita, a un nuovo incontro e poi, poco più in là, quando constata che «Il mondo son le nostre bocche giunte» ed esistono «piaceri urgenti».
GIGLI, GAROFANI, rosmarini, ginestre, cactus e ancora foglie di siliquastro, il tempo per la poeta portoghese è un tattile apprendistato carnale: «Ore profonde, lente, silenziose» non compaiono mai senza altrettante labbra, senza l’ardore, là dove sono state anche «disintegrate» e nella raccolta Brughiera in fiore, postuma del 1931, lei stessa non è più «sorella nostalgia» bensì libera e bramosa, nel perturbante che avanza.
Il volume Questo mio corpo sfamerà le rose si colloca in una fortuna editoriale che vede Florbela Espanca molto popolare dopo il suo decesso. E sia pure di difficile reperibilità, vale la pena nominare le traduzioni italiane precedenti: è il caso dell’antologia poetica a cura di Livia Apa, C’è in me una sete di infinito (Pironti, 1996) e Poesie scelte (con testo portoghese a fronte) a cura di Danila Boggiano (Oltre, 2023) insieme ai racconti Le maschere del destino (Arcoiris 2017, traduzione di Jessica Falconi, uscito postumo nel 1931 e scritto in morte dell’adorato fratello Apeles). Un approfondimento ulteriore va tuttavia fatto riguardo il modo in cui Espanca arriva la prima volta in Italia e a cui è legato il nome di Guido Battelli, professore a Coimbra e conosciuto nel giugno del 1930 e con cui intrattiene uno scambio epistolare. Le operazioni sono state piuttosto audaci sulle carte inedite della poeta, cui dedicherà anche una biografia e pubblicando rapidamente Charneca em flor nel 1931, insieme a versi inediti fino al 1934 in cui compaiono i sonetti (per le edizioni Gonçalves). Ci sono voluti degli anni per accorgersi dell’interferenza dell’intellettuale, colto dalle prime polemiche già nel 1937 da Silva Júnior.
Questa informazione, insieme ad altre utilissime, soprattutto bibliografiche, si può ora leggere nell’antologia poetica bilingue Ada Negri e Florbela Espanca, a cura di Antonella Cagnolati, Fabio Mario Da Silva, Maria Lùcia Dal Farra, Debora Ricci e Michelle Vasconcelos (Tab edizioni, pp. 312, euro 23). Nei saggi introduttivi alle selezioni di versi ci sono numerosi dettagli su Espanca, soprattutto editoriali oltre che biografici nel contributo che le dedica Lùcia Dal Farra della Universidade Federal de Sergipe da cui si evincono alcune comparazioni, di luoghi e temi, con quanto scritto da Ada Negri e altri elementi, alcuni abbastanza sconcertanti, che segnalano una sorta di ossessione macabra.
DOPO LA MORTE di Florbela, ad esempio, grazie a una trovata del suo ultimo marito Mario Lage che, prima del trasferimento del cadavere da Matosinhos a Vila Viçosa, invita gli amici a prendere un «ricordino». Oggi dunque il corpo che giace al cimitero di Castelo è ciò che resta di quanto hanno pensato di non portarle via. Qualcuno di loro, si legge, forse pentitosi ha restituito quanto preso depositandolo in un museo dedicato a quanto lasciato da Florbela Espanca. Sono reliquie che parlano di una donna che non immaginava quanto grande e predatoria possa essere l’ingordigia umana, che non finisce di appropriarsi anche dopo morte. È nel dialogo ininterrotto con altre donne, come aveva cominciato a fare intorno alla redazione «Portugal feminino», che si possono immaginare i frutti più maturi della sua parabola. Mentre le sue parole, luminose e inconsumabili, sono al centro di convegni internazionali, in tutto il mondo, dall’Italia al Brasile e al Regno Unito, fino al Portogallo. E ancora oltre.
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