Agli albori della riflessione intorno alla sottomissione femminile, ovvero, prima ancora della «prima ondata», la protofemminista Mary Wollstonecraft aveva individuato nell’esclusione delle donne dall’accesso alla conoscenza il principale ostacolo alla loro emancipazione.

A partire dall’affermarsi della «seconda ondata» del femminismo, ovvero dagli anni Settanta in poi, in Europa e negli USA la questione educativa è divenuta assolutamente centrale, basti pensare all’elaborazione dell’idea di «scuola antiautoritaria» e libertaria che ha impegnato una fetta consistente della riflessione e dell’esperienza di liberazione delle donne in uno spettro ampio e differenziato, teoricamente e geograficamente, che va da Lea Melandri a bell hooks.

La necessità di nuove pedagogie del rispetto torna oggi a pressare le agenzie della formazione, soprattutto a causa dell’allarme sociale sollevato dal disagio e dalla crescente violenza giovanile, nonché dall’inadeguatezza delle risposte esclusivamente repressive con cui si intende contrastarli.

La scuola sconta il ritardo di un’impostazione educativa che, pur tra molteplici sperimentazioni, fatica a staccarsi definitivamente da quella tradizione stancamente avviluppata intorno al criterio di autorità (priva di autorevolezza) come al proprio solo fondamento, che finisce per generare, in assenza di pensiero critico, una naturale inclinazione alla riproduzione automatica degli stereotipi.

L’attitudine al pregiudizio è profondamente radicata negli esseri umani poiché semplifica i processi cognitivi cui le nuove esperienze li espongono, facilitando l’adesione a schemi impersonali e ampiamente condivisi che non comportano sforzi interpretativi né assunzioni di responsabilità e garantendo l’appropriazione dogmatica e fideistica di rigide visioni del mondo preconfezionate e rassicuranti.

Ed è proprio su taluni preconcetti acriticamente acquisiti che si fondano le dinamiche di potere discriminatorie ed escludenti, incluse quelle prodotte dalle differenze sessuali e dai ruoli sociali che da esse vengono fatti discendere.

Così si impongono le norme di genere, le regole dell’eteronormatività che, indubbiamente decisive nel plasmare i rapporti interpersonali, sono diretta emanazione del controllo sociale che, spacciandone la presunta «naturalità» modella, attraverso mentalità e senso comune prevaricanti, i legami relazionali tra le persone assegnando ruoli e fini e prescrivendo comportamenti.

Funziona così, negli intricati rapporti tra genere e potere, quel processo di naturalizzazione e di introiezione inconscia delle categorie che presiedono all’organizzazione sociale in ambito sessuale che, tramite ingiunzioni e aspettative eteronormate della società o dei gruppi d’appartenenza, perpetua le logiche del dominio millenario che sono state cristallizzate dal patriarcato come sistema di potere.

Anche sul piano educativo è, pertanto, inevitabile l’attivazione di un processo di decostruzione di quella impostazione biologistica o naturalistica delle «questioni di genere» che, oscurando gli aspetti culturali e sociali che stabiliscono queste norme comportamentali, non consente di contestualizzare le categorie che utilizziamo per definire le donne, gli uomini, le soggettività LGBTIQ+ che sempre più spesso testimoniano con la loro concreta esperienza esistenziale l’inadeguatezza di quelle norme.

In tal senso, le rivoluzioni femministe veicolano una liberazione collettiva e aprono spazi di autodeterminazione che possono offrire possibilità inesplorate a tutti gli esseri umani costretti finora a forgiare la propria soggettività in base ai canoni dominanti. Un cambiamento possibile attraverso la decostruzione e il progressivo smantellamento del modello eteronormativo patriarcale costrittivo persino per il «maschio bianco eterosessuale proprietario», personificazione incarnata del soggetto dominatore.

Una scuola resa permeabile al transfemminismo attraverso un’educazione sessuale e affettiva volta alla consapevolezza del ruolo determinante che la sessualità svolge nella vita di relazione, potrebbe e dovrebbe promuovere un’alleanza liberatoria collettiva, un’emancipazione generale e personale di tutt* e di ciascun*.

Solo offrendo un modello cognitivo-critico nuovo alle giovani generazioni, liberato da quell’eterosessismo interiorizzato che costruisce oggi le relazioni sociali improntate al genere e alla sessualità, consentiremo loro di prendere atto del dominio simbolico naturalizzato con cui la maschilità tossica del patriarcato continua a imporre le proprie regole.

Occorre un’educazione che metta al centro il disvelamento dei rapporti di potere basati sul paradigma di genere tradizionale che fa passare per naturali differenze costruite socioculturalmente.

Occorre l’adozione di grammatiche delle differenze, dell’intersezionalità e del transfemminismo per avviare una rivoluzione culturale che le giovani generazioni, e non solo loro, si meritano. Solo rivoluzionando, tramite un’istruzione aperta e critica, la mentalità che alimenta sessismo e patriarcato, si possono trasformare le relazioni e consentire vite liberate dalla violenza ed esistenze finalmente autodeterminate.

Questo è, oggi più che mai, un dovere educativo assoluto, un compito pedagogico di prim’ordine cui la scuola non può più sottrarsi.