Una storia da archiviare
Gabriella Mercandini A dieci anni dalla scomparsa della grande fotografa, la ricordiamo in queste pagine con le sue foto, alcuni testi scritti allora e mai pubblicati e un’intervista inedita. Per chi di noi l’ha sempre amata e per chi non l’ha mai conosciuta, per restituirla all’attenzione di tutti
Gabriella Mercandini A dieci anni dalla scomparsa della grande fotografa, la ricordiamo in queste pagine con le sue foto, alcuni testi scritti allora e mai pubblicati e un’intervista inedita. Per chi di noi l’ha sempre amata e per chi non l’ha mai conosciuta, per restituirla all’attenzione di tutti
Gabriella per noi del settore fotografico e grafico del manifesto era un’indispensabile e continua fonte di materiale di pregio, senza il quale il nostro giornale non sarebbe riuscito a documentare la società italiana e i suoi sommovimenti, ma sopratutto, prima di tutto, era una vera amica, con la quale avevamo un forte rapporto personale e affettivo, una sorella maggiore. Il che non è proprio preciso. E’ difficile spiegare la verità, che era lei quella che macinava chilometri in bicicletta, si faceva da sola le vacanze in Turchia e in Grecia, gli piacevano i begli uomini, meglio se sapevano recitare ed erano gentili davanti alla sua Nikon (Clooney, ma anche Crowe e Craig), viaggiava solo con addosso un minuscolo zainetto e non sapeva cos’è una gonna, vestita sempre come un ragazzino (ma sempre truccata come noi non sapevamo fare).
Nel nostro archivio fotografico, diviso una volta più ordinatamente, prima della rivoluzione, o involuzione digitale, in schedari di cartelle separate per argomenti, paesi, città e tematica differenti, difficilmente non comparivano, in ognuna di queste, le preziose foto di Gabriella. La pubblicazione più recente è in un inserto dedicato al rapporto tra Rossana Rossanda e il femminismo italiano, a un anno dalla sua scomparsa.
Ma per primo veniva lo stesso archivio personale di Gabriella. Un giorno ci chiese una mano per partecipare ad una iniziativa culturale della Cgil. Libertà, democrazia, famiglia, popolo, donne, lavoro, e via dicendo. «Perché non mi aiutate?» Doveva selezionare da tutto il suo archivio, composto di migliaia di foto, nove, dieci fotografie, una per tema, ma dai titoli così altisonanti, per una mostra e un libro collettivo organizzata a Reggio Emilia. Facemmo uno dei giochi più divertenti che ci capitò di fare nell’ambito del nostro mestiere. Partendo dal suo grande armadio ordinatissimo, con il materiale diviso in temi, date, personaggi, iniziammo come matte a fare sul pavimento della sua casa a Campo de Fiori delle pile di fotografie sempre più alte: dov’è la libertà, no questa è più popolo, queste donne dove le mettiamo?
Una volta svuotato, abbiamo iniziato a giocare a ritroso, lottando contro la Cgil e le sue idee balzane e un po’ retoriche. Avrebbe potuto, con tutto il suo lavoro di anni dargli quello che si aspettavano, ma giustamente, con lo stesso lavoro poteva sovvertire l’impianto, e così con una dose di anarchia e due di umorismo, la famiglia si pietrificò nel Sarcofago degli sposi superato in corsa da un bambino che da solo giocava nelle stanze del museo etrusco di Villa Giulia. Il popolo fu rappresentato dagli scontri per Lama all’Università di Roma, che aveva fotografato con un certo coraggio come pochi. E così via. Ma qui vogliamo ricordare la foto che avrebbe poi incarnato la Libertà. A Isfatan, in Iran un gruppetto di donne velate dalla testa ai piedi fanno cerchio intorno a una vetrina di un negozio di borse, tra queste la più vicina si è distratta a tal punto che il velo si è impigliato a un ginocchio, mostrando il polpaccio, la caviglia e la scarpa col tacchetto a spillo alla prontezza del suo obbiettivo. E un’immagine che lasciava un interrogativo, e un augurio. Che quel velo prima, o poi, finisca anche lui in archivio.
Qui vogliamo ricordare un aspetto del suo lavoro, più personale, a cui teneva in modo particolare. Non c’è stato museo, mostra, galleria in giro per l’Europa che Gabriella Mercadini non abbia visitato senza avere al collo la sua macchina fotografica, attenta non tanto alle opere esposte quanto alla loro interazione con i visitatori. Pronta a fissare uno sguardo pensoso, una sbirciata distratta, uno sbadiglio, il passaggio veloce di una donna che esce rapida dal suo obiettivo per entrare in uno specchio di Pistoletto, per tessere il lungo filo che lega il rapporto che ogni presenza intavola con l’opera d’arte. E’ un lavoro prodotto nel corso degli anni pieno di fascino, e insieme divertente e spiazzante. Un bambino minuscolo di fronte a un’enorme copia romana di Paolini, la signora che conta le differenze tra una Maya desnuda e una vestita, una splendida Valentina di Crepax che si aggira tra le apparenti stranezze di una Biennale di arte contemporanea a Venezia, tutti quanti sono stati colti dai suoi magnifici occhi azzurri che hanno fissato lo sguardo sull’arte e chi la guarda, titolo della sua segreta collezione, andata in mostra solo a Parigi.
Il suo archivio, ancora non del tutto esplorato, si spera venga valorizzato al più presto, testimone di quarant’anni di storia italiana documentati attraverso la visuale di una grande maestra ancora non sufficientemente conosciuta. Il suo lavoro, negativi e stampe, anche già parzialmente digitalizzato, non aspetta altro, se si volesse, che di trovare la strada verso un archivio fotografico nazionale come quello di molti colleghi della sua generazione.
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