La rigorosa leggerezza di una grande professionista dell’immagine
Gabriella Mercadini Questi testi sono stati scritti nel 2012 per un libro progettato e mai realizzato che sarebbe dovuto essere un regalo a Gabriella dai suoi amici del manifesto. Li pubblichiamo oggi a distanza di dieci anni insieme ad alcune foto che li hanno ispirati.
Gabriella Mercadini Questi testi sono stati scritti nel 2012 per un libro progettato e mai realizzato che sarebbe dovuto essere un regalo a Gabriella dai suoi amici del manifesto. Li pubblichiamo oggi a distanza di dieci anni insieme ad alcune foto che li hanno ispirati.
I nostri incontri cominciavano spesso con uno spritz a Campo dei fiori ammirando la statua di Giordano Bruno o per le calli di Venezia. Avevo conosciuto Gabriella Mercadini prima attraverso le sue foto dove poi avrei ritrovato tutta la sua personalità. Foto straordinarie che dimostrano che non occorre essere aggressivi – come purtroppo sono gran parte dei fotografi – per saper fotografare. Una donna bella, indipendente, determinata, rigorosa soprattutto con sé stessa, con una coerenza che affermava con leggerezza, un impegno politico che non ha mai ostentato, un sostegno al movimento delle donne mai sbandierato, anche perché Gabriella non aveva bisogno di tante parole per esprimersi, a parlare erano e sono le sue foto. Rigorosamente in bianco e nero – con rare eccezioni come sull’Afghanistan -, non si era mai convertita al digitale come non aveva mai ceduto alle lusinghe di Photoshop. E ai tempi in cui alle fake news si accompagnano anche le foto fake, quelle di Gabriella sono una garanzia di autenticità. Anche se queste scelte l’hanno esclusa dal mercato, i tempi di internet erano incompatibili con il suo stile: Gabriella accompagnava i suoi scatti fin dentro le redazioni dei giornali, come se volesse essere certa che finissero in buone mani. Così intesseva rapporti che duravano nel tempo. Però purtroppo negli ultimi anni si lamentava «oramai mi chiedono foto solo per cataloghi», ma anche per qualche copertina. La concorrenza era spietata e forse anche per questo alla fine l’avevamo convinta a scannerizzare le sue foto, almeno una parte – comunque centinaia –, un patrimonio che andrebbe ora valorizzato. È una parte importante della nostra storia, soprattutto del movimento delle donne, ma non solo.
Non ha mai creato una scena per scattare una foto, non ha mai ceduto alle tentazioni del mercato, rispettava chi stava fotografando e chi era fotografato ammirava la sua capacità di creare empatia, con le donne, con gli operai, con i giovani. Coltivava le sue amicizie con l’invio di foto e cartoline con messaggi scritti con una calligrafia ricercata, come se non volesse tradire l’immagine con sul retro degli sberleffi.
Gabriella per me non era solo una grande fotografa, una compagna, ma una grande amica: abbiamo condiviso oltre agli spritz e alle cene, i momenti felici ma anche i peggiori delle nostre vite, soprattutto della sua.
Quando era ricoverata la trovavo ogni giorno perfettamente truccata, Gabriella non esibiva il suo dolore, mi sembrava che fosse rassegnata, ma con dignità. Era un giorno di febbraio, fuori nevicava, ero andata a comprarle un nuovo cellulare e per la prima volta aveva accettato di registrare alcuni numeri di telefono, non l’aveva mai fatto prima per esercitarsi con la memoria. Quel giorno, ricordo, aveva anche una sciarpa arancione tra i capelli, l’indomani partivo per Algeri. Al mio ritorno Gabriella non c’era più. Sulla parete di casa ho una sua foto di piazza Navona mentre nevica.
Giuliana Sgrena
«Un giro con la barca di Giorgio Molin. In laguna». «Ma sei sicura?» «Del Molin?» «No, della luguna». «Certo che si». Per quelli del «mar fondo», la laguna è solo un equivoco da lasciarsi in fretta alle spalle: acqua torbida che odora di terra, rotte che cambiano con le maree, pericolo di secca. Per chi ci è nato, invece, la laguna è la premessa di tutto ed è dove tutto ritorna: se poi si tratta della laguna di Venezia, allora è piazza sotto casa, strada per il mondo, canali da seguire con la cura di un amante, rifugio da accudire e far conoscere a foresti un po’ ignoranti. Maestrale che diventa «Mistro» e Bora che diventa «Borin». Si parte, ci si passa e si ritorna con l’attenzione necessaria per cogliere l’attimo, per goderne e farne godere. Come per il clic di una Nikon quando cattura, dentro un improbabile bar nepalese, due fumatori che sembrano eterni più dei ritratti di Marx e Lenin alle loro spalle, che non si capisce come siano capitati lì. E’ l’essenzialità di un momento che rimanda un mondo, quella frazione di tempo che sparisce subito, ma che una volta fissato dura una vita. In una di quelle foto che Gabriella firma a mano, con cura, lungo il bordo. Per tutti noi. Pure per quei tre fermi su un palco operaio italiano, in una piazza metalmeccanica, intenti a discutere gravemente di navi, carpentieri e lavoro nero. Quello a destra è il Molin. La barca è rimasta in laguna.
Gabriele Polo
Didascalia per te
Il bianco del buio
nel nero la luce
del viso il sorriso
Tommaso Di Francesco
Gabriella è a Madrid. Non alla corrida, che pure le piace tanto, ma all’Università. E non in um aula, ma al bar. Non ci può essere una Università senza bar, luogo di pensiero e di comunicazione. Che cosa pensa quella simpatica donna che appoggia il gomito (non lo alza) al tavolino? Forse si è indispettita con la sua compagna di tavolo. E poi, che cosa pensa quell’enorme e singolare Marx, appeso alla parete? Forse non pensa, ma guarda soltano la signora al tavolino. Ma come può esserci un Marx non pensante? Pensiamoci noi.
Valentino Parlato
Capita talvolta a un fotografo che ha molto vissuto e molto fotografato, di invidiare una qualche impresa di un suo collega, autore di un reportage di particolare qualità e significato.
Questo fu il sentimento che provai io stesso, quando Gabriella Mercadini, la mia amica Gabriella, realizzò in Spagna all’inizio degli anni ’70, sfuggendo all’occhiuto controllo della Guardia Civil, un reportage nelle Asturie, fra i minatori che resistevano alla dittatura.
Di Gabriella condivido la passione per la Spagna e ho io stesso realizzato diversi reportage in quel paese durante l’epoca franchista, senza tuttavia riuscire a entrare in contatto con il movimento dei minatori delle Asturie, come invece è riuscita a fare lei.
I tratti peculiari del lungo lavoro di Gabriella sono: una fedeltà costante alla cronaca politica, l’osservazione sociologica, la documentazione sociale, così come l’impegno per l’emancipazione femminile. Quanti indimenticabili ritratti di donne scattati da lei hanno pubblicato il giornali della sinistra, Noi Donne, Rinascita, il manifesto, L’Unità.
Ma non solo nella stampa engagèe, come un tempo si usava dire, il pubblico ha potuto vedere il suo lavoro, ma anche in mostre e pubblicazioni che si dedicano specificamente alla fotografia come arte.
Ricordo in particolare una mostra di fotografia dedicata alle foto di Gabriella intitolata “L’arte e chi la guarda” nella sala espositiva di PICTO, il prestigioso laboratorio creato da Pierre Gassman, alla Bastille, a Parigi, assai selettivo nelle sue scelte espositive. In quel luogo, un cenacolo della migliore fotografia internazionale, il lavoro di Gabriella, il suo simpatico candore, piacquero molto. Il giorno dell’inaugurazione fu un vero successo.
Certamente Gabriella ha dedicato alla causa delle donne un’attenzione particolare, ma il termine di fotografa femminista mi sembra restrittivo, dato il ben più ampio spettro della sua attività, sempre mirata a mettere a fuoco conflitti, diritti negati, ingiustizie, senza paura dei rischi che questo comporta.
Gabriella ha vissuto soprattutto in Italia, anche se ha fatto molti viaggi all’estero, sempre nel cuore degli avvenimenti del nostro tempo. Nata a Venezia ha sempre mantenuto un rapporto molto affettuoso con la sua città di origine. Ho un ricordo bellissimo di un giorno passato con lei, fra calli e fondamenta, mentre mi illustrava i suoi luoghi, quelli dei suoi amici, dei suoi compagni e dei posti che frequentava, e man mano mi svelava i suoi piccoli e grandi segreti.
Mario Dondero
Può capitare che il miagolio disperato di un gattino spinga pompieri pietosi a socchiudere, per qualche istante, il pesante e sigillato portone del Palazzo del Governo vecchio, il passante avrà modo allora di gettare una rapida occhiata all’interno e ritroverà subito lo scenario delle ormai celebri fotografie di Gabriella Mercadini. Il bellissimo cortile rinascimentale si animerà nella memoria. Donne, tante donne di ogni età si chiameranno dalle finestre, dai ballatoi, dai porticati del chiostro e si disporranno in cerchio in un’affollata assemblea senza tempo, gli occhi del passante cercheranno di distinguere le sorelle di anni svaniti. Piano piano ognuna prenderà il posto che le è dato nelle immagini di Gabriella. Il gruppo struggente di Quotidiano donna, il giornale dove quelle fotografie comparivano. Grazia tornerà qualche attimo a vivere; le trecce di Laura toneranno nere e lucenti; Emanuela tornerà a ridere come non ha mai più riso. Torneranno alla mente le parole e le grida di quel giornale, quando sembrava che tutto dovesse cambiare. Era il suono dei sentimenti che entravano nella politica, era il fragore di valori nuovi che dal chiuso delle case irrompevano nella storia.
Tano D’Amico
Cara Gabriella, vorrei dirti una cosa: è stata anche colpa tua se ho scelto di fare il tuo lavoro. Da ragazzino ritagliavo le foto che mi piacevano dai giornali per metterle in una scatola. Il 1968 era appena finito e quelle non erano, non potevano essere, foto banali.
Tra quegli scatti c’erano anche i tuoi. I fotografi uomini nella scatola erano di più, ma allora non ci facevo caso. Solo dopo ho capito che le foto di voi donne erano un valore aggiunto alla mia collezione di ritagli. Poi la vostra rivincita, tu, Luisa Di Gaetano e Agnese de Donato (per citare solo chi di voi ho conosciuto) ve la siete presa riempendo la Casa internazionale delle donne di scatti del movimento femminista. Tanto belle perché il vostro sguardo era parte di quel movimento. Era dentro. Per questo sono lì da anni, in mostra permanente.
Hai viaggiato sulle strade verso l’India, passando per l’Afghanistan e tanto altro mondo. Hai fotografato studenti e operai (in qualche scatto potrei esserci anch’io). Avevo le tue, le vostre, foto nella scatola e vi incontravo in piazza, perché frequentavamo gli stessi luoghi e sogni. Non sembravate ricche, ma avevate l’aria di divertirvi. Così ho deciso di provare a fare come voi.
Anni dopo, ti ho conosciuto nelle stanze dei grafici al manifesto, dove andavamo a portare le stampe da vendere al giornale. Credo che quella stanza sia stata un rifugio importante per i fotografi che lavoravano a Roma. Li ho incontrato anche Mario Dondero, e tanti altri. Si poteva parlare di tutto, perfino mostrarsi reciprocamente le foto senza diffidenza e andare al bar, dopo. Fuori dalla mitologia il nostro è un lavoro difficile. È raro incontrare amici che non tradiscono per vendere una foto in più, o che ti aiutano prima che tu lo chieda. L’ideologia non protegge dalle scorrettezze, anzi, a volte le maschera.
Incontrare te e pochi altri è stato un piacere. Non so se esagero, ma credo che siamo riusciti a vivere senza lavorare, perché abbiamo mantenuto unito il nostro tempo. Le nostre foto, ci rappresentano, anche quando le cediamo ad altri. Dentro c’é la voglia di cambiare il mondo che avevamo quando lo realizzavamo.
Mario Boccia
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