Una rivolta senza rivoluzione
Benedetto Vecchi, un anno dopo Stralcio dallo scritto per la rivista online «Machina»
Benedetto Vecchi, un anno dopo Stralcio dallo scritto per la rivista online «Machina»
Non c’è stato continente che non sia stato citato nei dispacci o nei post dei social network che annunciavano il fatto che le strade erano piene di uomini e donne indignati, furenti, semplicemente indisponibili a continuare la solita vita di ogni giorno. Venezuela, Bolivia, Cile, Brasile, ma anche India, Iraq, Libano, Catalogna, Stati uniti, Messico, Hong Kong, Italia. Elenco parziale per manifestazioni e mobilitazioni, ognuna differente, ognuna nata con motivazioni specifiche al contesto locale che le ha viste crescere. Spesso sono rivolte, tumulti, insurrezioni che nascono in opposizione allo status quo: talvolta, raramente, nutrono una nostalgia per il passato, rivendicando il ritorno a uno status quo ante. Sono tuttavia forme di azione collettiva che vengono lette indipendentemente dalla differenza sessuale che li scandisce. La marea femminista, le performance di Non una di meno hanno, laddove investe il tran tran di una quotidianità spesso scandita da patriarcato, oppressione casalinga, violenza sessuale e femminicidio, cioè il sapore di una radicalità irriverente, molto distante da quella prospettata da un assaltatore di un supermercato in qualche metropoli.
C’è però una iconografia che ha accompagnato questa onda globale. È una sequenza fotografica che viene dall’America Latina. Ritrae un manifestante che placca e atterra un poliziotto. Conviene soffermarsi sulle foto. Il poliziotto evoca un robocop, perché indossa una tuta, meglio un’armatura che ricorda un esoscheletro di un robot. Non si coglie nulla del volto dell’uomo che lo indossa. Ma anche il manifestante ha un volto irriconoscibile. Indossa però una maglietta e pantaloni come tanti. Il suo corpo è cioè protetto al minimo, ma la postura del ribelle, del manifestante travisato e pronto a rimanere invisibile e irriconoscibile al potere non lo rende così diverso dai giovani vestiti rigorosamente di nero di Hong Kong, che nella serialità dell’abbigliamento e dei colori vedono la via maestra per sottrarsi allo sguardo penetrante e alle tecnologie del controllo costituite da sistemi di video-sorveglianza e sofisticati software per il riconoscimento facciale che usano modalità e tecniche di analisi dell’intelligenza artificiale.
La sequenza fotografica ha fatto il giro dei social network. Immancabili i commenti di chi vi vede l’espressione di un potere costituito potente e tecnologico, ma tuttavia sconfitto dal potere disarmato ma dirompente del popolo. C’è da diffidare da tale lettura. Sia ben chiaro. L’onda globale di mobilitazione di questi ultimi anni è stata considerata un incubo da parte di chi ha amministrato il potere. Erano anni che una così diffusa, capillare mobilitazione non colpiva il mondo. È cioè dalle cosiddette Primavere arabe, da Occupy e dagli Indignados che rivolte globali non scuotevano la superficie liscia dello sviluppo capitalistico.
Ma in quella occasione le differenze non costituivano la caratteristica principale. Con un gioco di parole che la filosofia conosce bene, possiamo qualificare quello di allora come un fenomeno attinente a rivolte segnate da ripetizione e poca differenza. Invece, quella che abbiamo visto crescere in questo ultimo periodo è stata un’onda alimentata da differenze. Il potere costituito, allora come oggi, ha subito smacchi; è stato cioè messo all’angolo, in difficoltà, ha conosciuto delegittimazione, erosione del consenso sociale, una critica da parte dell’opinione pubblica locale e internazionale. Ma allora, come oggi, non è mai stato messo in discussione fino in fondo. Quella che abbiamo visto crescere è stata cioè un’onda ribelle che si è diffusa a macchia d’olio e in maniera diseguale nel pianeta, lasciando stupiti per la sua capacità di catturare l’attenzione mediatica, ma che non ha prodotto un’organizzazione politica capace di misurarsi con la modificazione dei rapporti sociali che pure voleva sovvertire. È attorno a questo – la crescita della rivolta per differenze – che si impone surplus di attenzione e riflessione.
In primo luogo si moltiplicano le parole d’ordine, gli «ordini del discorso» ribelli si arricchiscono di prospettive, capacità di narrare mondi non pacificati, che si riferiscono al saccheggio delle materie prime, alla crescita della povertà nelle metropoli, alla critica delle politiche neoliberiste di austerità, all’espropriazione dei beni comuni da parte delle imprese. Assente, o meglio sullo sfondo, il richiamo alla lotta di classe, al conflitto tra capitale e lavoro. Ma è solo il riflesso di quella articolazione del regime di accumulazione del capitale che rende il welfare state, l’ambiente, la finanza, elementi importanti ma non centrali in ognuno dei processi di valorizzazione del lavoro vivo e del conflitto attorno alla produzione di plusvalore relativo e assoluto, per rimanere a un lessico classicamente marxista. E se qualcuno punta l’indice verso le rivolte di questi anni, è il classico esempio di chi non vuol guardare oltre il proprio naso. Per lui, basta una scrollata di spalle e procedere oltre.
Occorre dunque tornare alla sequenza fotografica, che evidenzia le potenzialità politiche delle rivolte, la capacità di misurarsi con la contingenza, ma anche il carattere effimero di quella capacità di rottura. C’è infatti da sgomberare il campo da un equivoco, condizione preliminare per continuare una qualche forma di riflessione. Non si pensa qui alla necessità di un’organizzazione politica centralizzata, un partito cioè a impianto leninista; o a un sindacato impregnato dal sudore della fronte del lavoro manuale. Il lessico della marea ribelle è, come già segnalato, diversificato: assomiglia più a una babele che non a decalogo di una rivoluzione che verrà. Le donne si scagliano contro il potere del patriarcato indicando nel capitalismo l’ambito che ne favorisce lo sviluppo.
Milioni di ragazzi e ragazze vedono l’orologio della storia accelerare con una devastante distruzione delle risorse ambientali e chiedono di rallentarne la corsa; a nord e a sud dell’equatore c’è chi chiede di invertire la rotta nelle politiche di austerità; in molti chiedono la fine della precarietà nei rapporti di lavoro; generica e diffusa è la richiesta di democratizzare le istituzioni nazionali o internazionali.
Talvolta il lessico politico strizza l’occhio alle tematiche dell’identità; talvolta il collante viene lavorato con la summa dell’islam, di Confucio, dei testi Veda, ma sempre come espediente, sotterfugio. La religione come variante del politico è cioè imboccata come una scorciatoia o poco più. Ogni realtà, ogni movimento, elabora cioè un proprio vocabolario, una propria agenda, senza porsi troppo il problema di una generalizzazione globale della propria azione. E questo accade anche per quei movimenti che hanno come vocazione naturale una dimensione globale. (…)
Ciò che serve è la traduzione di un’utopia concreta in un potere costituente che funzioni come un contropotere capace di costruire spazi pubblici, dove i corpi di uomini e donne possano incontrarsi, ascoltarsi, discutere, cambiare idea e decidere in libertà. Ciò che serve è un’assemblea permanente che funzioni come organizzazione politica permanente. Questa la posta in gioco, questa l’utopia concreta da costruire. Questa la sfida da raccogliere, affinché quella sequenza fotografica si concluda sì con l’abbattimento del robocop mandato a reprimere l’insurrezione, ma anche con l’apertura di spazi di libertà duraturi nel tempo e nello spazio.
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