Una rivincita commerciale per Penelope
Mitologia al femminile Barker, Haynes, Miller, Lynn, Saint... Spopolano (anche in Italia) le scrittrici che rivisitano Omero e i classici dal punto di vista delle donne: il loro però è un superficiale tributo all’empowerment che strumentalizza il pensiero femminista
Mitologia al femminile Barker, Haynes, Miller, Lynn, Saint... Spopolano (anche in Italia) le scrittrici che rivisitano Omero e i classici dal punto di vista delle donne: il loro però è un superficiale tributo all’empowerment che strumentalizza il pensiero femminista
I romanzi storici o mitologici di ambientazione antica sono ormai da decenni una tipologia narrativa diffusa e ben attestata nelle classifiche dei libri più venduti. Più di recente si è sviluppato un fenomeno letterario contiguo: la ripresa e la risemantizzazione dei classici greci e latini in chiave femminile. Diversi autori – in maggioranza autrici – rielaborano in forma romanzesca racconti del mito e dell’epos a partire dalla centralità dei personaggi femminili, che costituiscono così il prisma attraverso cui le vicende vengono di volta in volta riscritte e interpretate. Molti di questi romanzi sono stati salutati dalla critica come il tentativo di restituire visibilità alle donne, altrimenti cancellate dalla Storia: è proprio tale volontà, declinata a diversi livelli e con diversa consapevolezza, a costituire la cifra unificante dei libri in questione. Antesignani di questa tendenza sono Il canto di Penelope (The Penelopiad) di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie 2005, traduzione di Margherita Crepax, € 13,50) e Lavinia di Ursula Le Guin (Cavallo di ferro 2011, trad. di Natascia Pennacchietti e Costanza Rodotà, € 16,00). Mentre quest’ultimo si connota come un tributo alla poesia virgiliana, senza alcuna velleità di attualizzazione, nel romanzo di Atwood si colgono elementi di critica anti-patriarcale e anti-schiavista nella deplorazione della sorte delle ancelle di Penelope, asservite in vita e diffamate dopo la morte dalla narrazione maschile.
La critica alla violenza immanente nella storia delle donne si generalizza in alcuni romanzi più recenti, a partire da Il silenzio delle ragazze (The Silence of the Girls) dell’inglese Pat Barker (Einaudi 2019, trad. di Carla Palmieri, € 18,50), dove la denuncia dell’oppressione delle Troiane è realizzata attraverso l’inversione della prospettiva dell’Iliade: attraverso la voce narrante di Briseide si delinea la guerra vista e vissuta dalle prigioniere. Una narrazione che de-eroicizza i guerrieri, le loro gesta, i loro moventi, e pone in primo piano le vittime.
L’originalità nel rendere protagoniste le Troiane ridotte in schiavitù, spesso menzionata dai recensori di Barker, non è veramente tale però: già nel V secolo a.C. Euripide aveva proposto questo cambio di prospettiva nelle Troiane, nell’Ecuba e nell’Andromaca. Più originale semmai, ma non sempre riuscita, è la riduzione della guerra di Troia alla sua dimensione corporea, fatta di sangue, sporco, violenza e quotidiana reificazione di corpi femminili. All’effetto di crudo realismo contribuisce l’impasto, talora forzato, tra stilemi omerici e un linguaggio scabro di cui Barker si avvale anche per il successivo romanzo, The Women of Troy (Hamish Hamilton 2021), ugualmente caratterizzato dall’attenzione per i dimenticati dalla Storia.
L’autrice ha dichiarato nelle interviste di voler attualizzare il tema della violenza sessuale nelle guerre; analoga riflessione è adombrata in Il canto di Calliope (A Thousand Ships) dell’inglese Nathalie Haynes (Sonzogno 2021, trad. di Monica Capuani, € 18,00), dedicato alle donne dell’Iliade. È alla Musa che l’autrice affida il senso ultimo del suo romanzo: «Ho cantato delle donne, le donne nell’ombra. Ho cantato di chi è stato dimenticato, ignorato, non raccontato. (…) Le ho celebrate con il canto perché hanno aspettato fin troppo…». Qui il cambio di paradigma, in verità, è più dichiarato che reale, e la presa di parola delle protagoniste si limita a una trasposizione narrativa delle vicende omeriche, delle quali è privilegiato il vissuto femminile.
L’intento di riabilitare i personaggi femminili è evidente anche nella Circe dell’americana Madeline Miller, autrice resa celebre dal romanzo campione di vendite La canzone di Achille. In Circe (Sonzogno 2019, trad. di Marinella Magrì, € 19,90) Miller propone la vera storia del personaggio, prima e dopo l’incontro con Odisseo; l’autrice si basa sulle varianti dei mitografi, contaminate da un’invenzione a cui è concesso ampio spazio, pur nei limiti della coerenza del racconto. Attraverso una prosa brillante e un alto grado di appeal emotivo, la dea viene dipinta come una donna che persegue la propria indipendenza: la vera storia di Circe è una vicenda concreta e interiore, portatrice di temi universali. È anche questa caratteristica a risultare decisiva per il successo della scrittrice.
La figura di Circe era già stata riabilitata più di vent’anni prima nella Medea di Christa Wolf: ma mentre nel romanzo di Wolf le figure femminili erano costruite su una trama di riferimenti all’attualità politica della Germania dell’epoca, la Circe di Miller vuole più semplicemente sfrondare la storia della dea dal peso anti-femminile della tradizione eroica. A tutt’oggi Circe resta saldamente tra i primi venti libri più venduti in Italia. Il successo di vendite arride anche a Marilù Oliva, che prima del recentissimo L’Eneide di Didone (Solferino, e 16,50) ha scritto L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre (Solferino 2020, € 16,00), ennesima polifonia «al femminile» intorno alle avventure di Odisseo: al centro dell’attenzione, tuttavia, resta sempre l’eroe, delle cui imprese le donne risultano essere più che altro testimoni.
Che il fenomeno dei romanzi femminili sul mondo antico sia caratterizzato da una vocazione commerciale, è indicato dalla sua rapida intensificazione: tredici romanzi nel quadriennio 2019-2022 e un graphic-novel (Jessie Burton, Olivia Lomenech Gill, Medusa: The Girl Behind the Myth, Bloomsbury 2021, £ 14,99). Spesso al successo editoriale di un primo romanzo seguono a breve distanza altre opere di analogo tenore: è il caso dell’inglese Hannah Lynn, che dopo Il segreto di Medusa (Athena’s Child), pubblicato l’anno scorso da Newton Compton (trad. di Mariafelicia Maione, € 9,90), si è dedicata a Clitemnestra in La vendetta degli dei (A Spartan Sorrow), sempre Newton Compton (2022, trad. di Micol Cerato e Mariacristina Cesa, € 9,90); mentre per quest’anno è annunciato un terzo tomo su Ippolita, la regina delle Amazzoni. Analogamente Jennifer Saint, inglese, dopo Arianna (Ariadne), dedicato alle figlie di Minosse (Sonzogno 2022, trad. di Ginevra Lamberti, € 18,00), ha realizzato un ulteriore «capitolo» su Elettra (Elektra, Wildfire 2022, £ 14,99).
Appena editi, molti di questi romanzi sono stati rapidamente tradotti in italiano e accompagnati da un discreto battage mediatico, nel mondo anglosassone come da noi: diversi di essi sono stati recensiti sui principali giornali europei e statunitensi, in particolare nelle sedi editoriali deputate alla consacrazione di un autore presso il vasto pubblico, come il Guardian in UK o l’inserto letterario del Corriere della Sera in Italia.
Ma cos’è soprattutto che decreta tale successo? In primo luogo bisogna chiedersi se il fenomeno sia unitario. A un primo sguardo, infatti, l’insieme dei testi è eterogeneo per qualità letteraria, intenti, esattezza del quadro storico e mitico. Alcuni di essi tradiscono una conoscenza imperfetta o scarsa della classicità, altri (la minoranza) sono opera di studiose: tra questi ultimi si segnala la più originale delle narrazioni «odissiache», tessuta con eleganza dalla grecista Maria Grazia Ciani ne La morte di Penelope (Marsilio 2019, € 12,00). L’anacronismo e la variazione del mito, ça va sans dire, non sono in sé difetti: la variazione è da sempre costitutiva dei racconti tradizionali, che sono il prodotto di lunghe catene mitopoietiche. Ciò a patto però che tali trasformazioni siano finalizzate alla produzione del senso e non abbiano come unico fine la conquista di un pubblico più largo attraverso la superfetazione di temi commercialmente profittevoli.
La fortuna di molti romanzi è dovuta a innumerevoli ragioni, che definiscono anche la loro parziale unitarietà: narrazioni scintillanti, trame avvincenti e, in alcuni casi, proprio il ricorso agli ingredienti graditi al grande pubblico, anche adolescente, come i temi amorosi e i toni patetici. Esiste tuttavia un’altra causa, non specificamente letteraria, che accomuna questi testi e ne innerva il successo. Buona parte dei recensori e anche diverse autrici definiscono in chiave femminista la scelta di restituire protagonismo alle donne antiche. Miller ha dichiarato in un’intervista italiana che il mito di Galatea, protagonista dell’omonimo racconto Galatea (Sonzogno 2021, trad. di Marinella Magrì, € 14,90), è una «metafora del sessismo, della donna ridotta a oggetto della violenza che si può ancora scatenare se decide in autonomia». Alla domanda se sia nato un filone mitologico femminista, Miller ha risposto affermativamente, precisando: «Volevo sottrarre Circe e Galatea al controllo delle società patriarcali». La stessa intenzione si manifesta già nel titolo di un altro recente romanzo di Claire Heywood, Daughters of Sparta: A Tale of Secrets, Betrayal and Revenge from Mythology’s Most Vilified Women (Hodder & Stoughton 2021, £ 7,37).
Ora, se si può concordare nel definire genericamente «femministe» tali scelte narrative, più difficile è valutare nei singoli casi se e quando questa posizione sia realmente accompagnata da un approfondimento del pensiero femminista e da un’adesione a una delle sue correnti, o se non si tratti invece di un superficiale tributo al femminismo mainstream e a quella rivendicazione di empowerment ormai divenuta un marchio del «politicamente corretto» persino nel marketing, nella pubblicità e nelle strategie aziendali di pinkwashing. Il sospetto che alcuni romanzi si inseriscano strumentalmente in questa tendenza è legittimo. Le case editrici, infatti, si mostrano tutt’altro che insensibili al potenziale mercato aperto dall’intensificarsi dei movimenti femministi nel mondo, a partire dall’America Latina con Ni una menos, e dai dibattiti e dai fenomeni sociali e culturali che li accompagnano. Negli ultimi trent’anni, in effetti, anche le istituzioni internazionali hanno operato in questa chiave una vasta strategia di strumentalizzazione dei movimenti femministi: parola d’ordine di queste politiche è proprio il concetto di empowerment, presentato nella Dichiarazione di Pechino del 1995 come una strategia chiave dello sviluppo. In parole povere, le donne devono prendere potere, abdicare al vittimismo, acquisire agency e stima di sé, sviluppando capacità di negoziazione a livello domestico e collettivo, per ottenere una divisione dei beni più equa e un esercizio «differente» del potere. In questo discorso assistiamo a una cancellazione delle origini materiali delle diseguaglianze, dello sfruttamento, della violenza e dell’esclusione delle donne dalle risorse primarie a livello mondiale; la prospettiva si sposta così sull’empowerment in quanto dinamica prettamente psicologica.
A queste condizioni, persino le donne antiche possono ambire a una loro agency, almeno in qualità di personaggi di un romanzo. Ne è esempio la Briseide di Il silenzio delle ragazze: nonostante la sua condizione di schiava, abusata e privata dell’identità, nel corso della narrazione Briseide riesce a sottrarsi allo statuto di «oggetto» grazie al suo sguardo analitico e spietato sul mondo eroico dei Greci. Paradossalmente, i recensori del libro si sono soffermati invece più sulla figura di Achille che su quella della narratrice.
Da alcune correnti del femminismo dominante questi romanzi traggono anche l’idea essenzialista della diversità naturale del potere femminile: Haynes ricorda ad esempio l’inclinazione delle donne all’azione collettiva, in antitesi all’individualismo maschile: «…un messaggio per l’oggi: serve una gestione del potere nuova, più sfumata, con donne e uomini non intrisi di modelli patriarcali». Altrettanto mainstream è la concezione secondo cui il patriarcato colpisce ugualmente uomini e donne, come Miller ha dichiarato in un’intervista a Repubblica: «La costrizione può riguardare anche gli uomini. Essere femminista significa allargare lo sguardo a ogni tipo di coercizione sociale». Un esempio di questa concezione è il personaggio di Telemaco in Circe, schiacciato dalla figura paterna e dal modello eroico dominante, al quale non riesce ad aderire; a esso l’eroe preferisce una vita anonima e un umbratile matrimonio con Circe, secondo la versione tramandata dal mitografo Apollodoro.
Questa vocazione «femminista» della letteratura di largo consumo non è avulsa dalla propensione di taluni settori anche accademici della storiografia del mondo antico a raccordarsi con gli apporti teorici del femminismo dominante. Dopo avere integrato le donne come «oggetto storiografico» nelle discipline storiche a partire dagli anni settanta, numerose studiose si sono impegnate a sottrarre all’oblio i ruoli economici e religiosi e le attività femminili oscurati dalle fonti e sottovalutati dagli storici antichi. Questo orientamento, che ha ottenuto risultati scientifici importanti, sembra essere stato assorbito anche dalla narrativa: molti dei romanzi citati in questo articolo, a cominciare da quello di Pat Barker, si propongono di restituire un quadro a tutto tondo della vita delle donne di diversi statuti e categorie sociali, anche negli aspetti più sordidi e violenti. A partire dagli anni novanta, la rivalutazione dei ruoli femminili ha però spinto alcune storiche a sovrastimare la agency e i poteri delle cittadine delle poleis greche e a negare o attenuare il concetto di «dominio maschile» in nome di un’idea di complementarità e non-conflittualità tra gli interessi dei due sessi; si è così focalizzata l’attenzione sugli aspetti simbolici e identitari dei rapporti sociali di sesso, oscurando le strutture materiali a essi sottese. Anche questa tendenza è stata assorbita in alcuni dei romanzi analizzati: le loro eroine agiscono talora con libertà, poteri e consapevolezza impensabili per una donna antica (Certo, non si tratta di pamphlets o di storiografia, si sa che nel romanzo, per statuto, molte possibilità sono consentite all’invenzione).
Nonostante la palese vocazione commerciale e il femminismo convenzionale di molti di questi romanzi, almeno un merito va loro riconosciuto: essi costituiscono un – pur blando – invito, soprattutto per i lettori adolescenti, alla messa in prospettiva delle strutture sociali e dei fenomeni storici, osservati attraverso lo sguardo degli emarginati. Essi mostrano inoltre che i classici, lungi dall’essere portatori di una cultura elitaria, possono offrire ai lettori un bacino di storie fruibili e popolari nel senso migliore e più ricco del termine.
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