Una parola mai sentita prima: polimaterico!
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Enrico Prampolini «Incontro ravvicinato sul lago Ceresio a Lugano, in casa di una coppia di collezionisti ispirati: un quadro del pittore futurista. Da allora io, ex-avanguardista militante, ho pedinato uno che vero avanguardista era stato tutta la vita: colto, insolente, futurista sì, ma inclusivo di altre avanguardie»
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Enrico Prampolini «Incontro ravvicinato sul lago Ceresio a Lugano, in casa di una coppia di collezionisti ispirati: un quadro del pittore futurista. Da allora io, ex-avanguardista militante, ho pedinato uno che vero avanguardista era stato tutta la vita: colto, insolente, futurista sì, ma inclusivo di altre avanguardie»
Prendendola un po’ alla lontana, cosi è cominciata la mia avventura con Enrico Prampolini. Si fa per dire, perché l’artista è morto nel 1956, ben prima che io entrassi in un modo o nell’altro nei labirinti dell’arte.
Gli itinerari perigliosi che hanno accompagnato le vite degli artisti, non molto diversamente da quelle dei santi, mi hanno sempre attratto. Osservatore non impassibile e soprattutto non imparziale del travaglio altrui, su cui ho costruito una montagna di congetture, di mostre e di reputazione, posso solo testimoniare che alla lunga la smania di esplorare non fa necessariamente bene agli equilibri dello spirito. Dannarsi l’anima per questioni estetiche e/o spirituali comunque opinabili e dagli esiti spesso incerti è inevitabile per chi intreccia la propria vita con l’arte, con le vite degli artisti. Ho sempre pensato che il rischio di incappare in qualche triangolo delle Bermude, percorrendo e ripercorrendo zone sconsigliate del mondo come quelle della coscienza, sia più che una ipotesi. Nel mio piccolo però non mi sono mai inabissato e ho tuttavia avuto la ventura di trovare quello che credevo di volere.
Diversamente dai cercatori di dinosauri e tombe egizie, ho potuto stare in pantofole «viaggiando intorno alla mia stanza». La stanza è poi diventata grande come la distanza fra Italia e U.S.A. Così per quasi cinquanta anni. Ho cambiato spesso postazioni, punti di osservazioni e di vista dal momento che anche soltanto il cambiamento della luce muta le cose, le emozioni e le idee.
Si è sempre saputo della forza della luce. In una di queste postazioni, sul lago Ceresio a Lugano, sono incappato in un incontro ravvicinato con una coppia di collezionisti ispirati, e nella loro casa con vista sul lago ho visto un quadro di Enrico Prampolini, potentemente futurista. Ricordo però che avevo visto nel 1963 una cinquantina di quadri di Prampolini in una mostra alla galleria Narciso di Torino, l’unica che svolgeva una puntuale ricerca sul Primo e Secondo Futurismo. Grande impressione e un senso di smarrimento, e anche una parola mai sentita prima applicata alla pittura: «polimaterica». Da allora io, ex-avanguardista militante (solo Pop, solo Minimal, solo Arte Povera, solo Arte Concettuale nel mio menù), ho cominciato a ricercare le tracce di uno che vero avanguardista è stato tutta la vita, anzi ci è nato.
Cosa era successo? Oltre a una mai sopita passione per il mio conterraneo Giacomo Balla, è successo che ho capito che poter comprare un pezzo irripetibile di Storia Italiana a meno di quello che spendevo per un mio giovane artista (di successo) era una bella spinta. Sarà pur vero che i nomi sono «puri, purissimi accidenti», però possono innestare qualcosa che ti influenza tuo malgrado, un po’ come i messaggi subliminali della pubblicità.
Il nome Prampolini non mi evocava granché, a parte, forse, una fabbrica di biscotti. Invece altri «consonantici» come Arp, Merz, Schwarz, Ernst, Marx, Tzara sembravano forti come delle schioppettate, mentre Kandinsky, Stravinsky, Jawlensky, Jodorowsky come colpi di frusta che non si dimenticano. Altri ancora, di assonanze araldiche: De Maistre, De Chirico, De Pisis, De Nittis, De Carolis… sembravano già presumere una altezza di linguaggio. Sta di fatto che cominciavo a capire di dover recuperare il tempo perduto e accumulare più Prampolini che potevo, così risarcendo anche la memoria di un grande futurista.
Nato nel 1896 a Modena, da subito affascinato dal mondo dello spiritismo, fu iniziato in massoneria nella Loggia «Giosuè Carducci» a Reggio Emilia (sin dal 1888 il poeta era stato elevato al 33° grado del rito Scozzese Antico, ma a scuola non ci fu detto). Da giovanissimo Prampolini manifestò i segni inequivocabili di una predisposizione artistica, che l’avrebbe poi portato (per usare le sue parole) a esprimere «le estreme latitudini del mondo introspettivo, e della cultura Futurista». A diciannove anni aveva già litigato con Boccioni e Balla e scriveva da pari a pari al boss del Futurismo, Marinetti, con spavalderia meticolosa.
Piccolo di statura e di inesauribile energia, viaggiatore nel mondo e nell’anima futurista ma, transnazionale per vocazione e utopista per natura, sin dall’inizio della sua «carriera» di predestinato mostrò alcuni tratti particolari tra cui, al contrario di Boccioni, la sua inclinazione a includere. A vent’anni era già in contatto con le avanguardie europee aprendo coraggiosamente un dialogo fecondo (e pericoloso) con il Dada di Tristan Tzara, con Mondrian, Kandinsky, Picasso. Collaborava con giornali come critico e teorico, scriveva Manifesti a getto continuo, fondava riviste riuscendo anche a collaborare da scenografo con Anton Giulio Bragaglia per Thaïs, e anche per Perfido Incanto, entrambi del 1917 e clamorosi fiaschi, anticipatori della Fotodinamica Futurista. Sua è stata la prima critica «esterna» a favore della serata Futurista nel ridotto del teatro Costanzi di Roma.
Prampolini va in consonanza conflittuale con il Dinamismo plastico di Boccioni e le Conseguenze astratte di Balla. Viene espulso perciò dai circoli futuristi, ma nel 1926, su incarico di Marinetti (che lo riabilita), cura a Venezia la prima Biennale dei Futuristi con diciannove artisti; manterrà l’incarico per tutte le edizioni successive, fino al 1942. Insomma, colto, insolente e un po’ irridente sempre.
È del 1914, a diciotto anni, la sua prima personale alla galleria Futurista di Giuseppe Sprovieri a Roma. Allievo di Giacomo Balla insieme a Depero, abbracciò la rivoluzione futurista e, da enfant prodige, curiosò con empatia anche in altre menti fervide. Pressappoco nello stesso tempo Boccioni attaccava Apollinaire per un articolo sull’Orfismo, l’Orfismo cubista di Robert Delaunay, per plagio delle idee futuriste, e chiunque avesse da eccepire sulle idee di un nuovo ordine (futurista): in questo, degnissimo compare del suo mentore Marinetti.
Attraverso la sua rivista «Noi» (1917-’25) Prampolini presentò gli artisti d’avanguardia come un collettivo senza confini e bandiere, Tristan Tzara, Léger, Severini, Archipenko, Julius Evola (che avrei conosciuto io stesso nel 1962 a Roma per offrigli una mostra dei suoi quadri Dada che rifiutò, nemmeno cordialmente). Nel 1919, dopo la guerra, aprì una galleria Casa d’Arte, che durò fino al ’21 andando ad affiancare la coraggiosa Casa d’Arte Bragaglia per promuovere scambi internazionali interdisciplinari tra pittori, scrittori, musicisti e progettisti teatrali.
Nel 1917 Balla aveva già sperimentato una forma di teatro solo di luce, forme e musica, senza attori, con il Feu d’artifice di Stravinskij. Sin d’allora ebbe un rapporto stretto con Tzara e il Dada delle origini del Cabaret Voltaire, che gli fruttò una mostra a Zurigo nella galleria di Dada.
Quando vennero a Roma nel 1917 per iniziare a lavorare su Parade, Picasso e Cocteau ebbero la curiosità di conoscere i futuristi e visitarono lo studio del precocissimo Prampolini. In quella occasione egli scrisse su «Noi» un articolo entusiasta su Picasso e la radicalità del Cubismo Sintetico.
La sintassi di Prampolini si sarebbe presto incrociata anche con il Neoplasticismo in nome dell’internazionalismo dell’arte e della modernità. Nel 1922 egli entrò in contatto a Weimar con Gropius e a Düsseldorf con Lissitzky e Theo Van Doesburg. Non mancò di collaborare come «impresario culturale» con Mondrian, Hans Arp e con il gruppo Cercle et Carré.
Tanta roba per uno che non aveva ancora compiuto trent’ anni. E se non bastasse, sin dal 1925 passò dodici anni a Parigi. Lì avrebbe scritto: «il soggetto dei miei quadri è una continua variazione del tema del divenire della materia e il divenire di un mondo nuovo, che si manifesta come uno sviluppo che parte dall’interno e va verso l’esterno»; «il concetto di metamorfosi dei colori nello spazio, figurazioni astratte di mondi immaginari, entità biologiche e biochimiche». Si trattava d’un percorso verso una forma di idealismo cosmico, con profondo interesse per dinamismo e organicismo; in quel periodo, a partire dal ’30, eseguì opere polimateriche.
Ho dimenticato di ricordare che già nel 1922 firmava, insieme a Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini, il manifesto dell’Arte Meccanica: la macchina intesa come meccanismo generatore di combinazioni plastiche. A metà degli anni trenta era diventato uno dei leader indiscussi della pittura a decorazione parietale. Ebbe una mostra personale alla Biennale di Venezia nel 1930 che ribadisce il suo ruolo di visionario e guida del movimento futurista.
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