«Le fotografie non mi piacciono molto. Hanno la pretesa di essere oggettive, ma niente è mai oggettivo». È la risposta dell’imperatrice Elisabetta all’inventore francese Louis Le Prince che, in modo spregiudicato, le aveva proposto di farsi filmare, cioè di rendersi oggetto di una speciale macchina capace di catturare le immagini in movimento. Un nuovo prodigio ancora sconosciuto, quello che poi qualche anno dopo per merito di Auguste e Louis Lumière sarebbe diventato il cinema.

IL FANTASIOSO dialogo è tratto da Il corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer, autrice di una riuscita e libera trasposizione della vita di Elisabetta di Baviera, l’imperatrice, nota a tutti come Sissi. La donna che non voleva farsi fotografare, che esercitava il pieno controllo sulla propria immagine, che era ossessionata dal suo peso, dalla sua bellezza, dal suo apparire agli altri e a se stessa. Che voleva evadere dal suo ruolo o interpretarlo in modo diverso, in un’epoca nella quale non erano previste improvvisazioni sullo spartito.
Nessuno, però, può addomesticare la realtà, asservirla a un’intenzione. E quell’oggettività che Elisabetta rivendicava è evaporata nelle decine e decine di film, di serie televisive, di adattamenti più o meno fedeli alla biografia dell’imperatrice. Solo in quest’ultimo periodo, sono state rilasciate due serie, una su Netflix (L’imperatrice), un’altra su Canale 5 (Sissi). E poi, un paio di film decisamente più intriganti e stimolanti, con immaginari che attraversano il tempo, dal passato al futuro andata e ritorno: il già citato Il corsetto dell’imperatrice e Sisi & Ich di Frauke Finsterwalder, in uscita il prossimo anno. Due esplosioni musicali, solari e al tempo stesso cupe, perché l’esistenza di Elisabetta si è divisa continuamente tra la vita e la morte. Amori vissuti e inventati, drammi famigliari, amicizie, complotti, maternità, storie personali e collettive, viaggi, ricerche, fughe e ritorni, monarchie e anarchie, restaurazioni e rivoluzioni. È solo un elenco parziale di quello che si è visto nel corso degli anni.

UN SUCCESSO probabilmente dovuto alla trilogia di Ernst Marischka che tra il 1955 e il 1957 realizzò La principessa Sissi, Sissi – La giovane imperatrice e Sissi – Destino di un’imperatrice. Oppure a Romy Schneider che si fece interprete di quel ruolo e che poi, con un cambio di registro narrativo radicale, continuò nel 1972 a essere l’imperatrice nel Ludwig di Luchino Visconti.
O forse, semplicemente, perché in quella persona che è diventata personaggio a vita, di volta in volta, o persino contemporaneamente, si sono rivelate infinite possibilità narrative che continuano ad attrarre spettatori molti diversi tra loro. Sono accolti quelli che cercano la favola della principessa aristocratica ma dai tratti popolari e anche quelli che scoprono la ribelle che non accetta le regole di un gioco deciso da altri. Fragile e forte, dimessa e mai arrendevole, mossa dagli eventi e decisa a spostare il mondo. Per certi versi, Elisabetta somiglia al Pinocchio di Collodi. Anche lui soggetto a mutevoli e personalissime interpretazioni. Bambino e burattino, ribelle e integrato, curioso e disinteressato. E non a caso, protagonista di numerose trasposizioni cinematografiche, più o meno fedeli al testo originale.
«Lei è come un libro per me. C’è un enigma in ogni pagina. In lei tutto è disposto in una sorta di museo disordinato. Grandi tesori che non sono valorizzati. Perché lei non sa cosa farsene. Vive in un mondo diverso da questo, un mondo in cui cammina su un sentiero, così stretto che solo una persona può percorrerlo», scrive Marie Festetics, una delle dame che accompagnano Elisabetta, testimone privilegiata di quello che accadeva alla fine del XIX secolo, poco prima che tutto, una volta ancora, cambiasse. Nel film di Kreutzer, così come in quello di Finsterwalder, il salto si avverte di meno, proprio a causa della mutevolezza del personaggio, che sembra incatenato al tempo nel quale ha vissuto, eppure capace di divincolarsi per essere altrove. Ironicamente, nel futuro è arrivata la sua immagine, quella che non voleva diffondere in alcun modo.
«Vorrei attraversare le epoche, ma posso filmare solo quella in cui vivo. Non posso viaggiare a ritroso nel tempo, solo in luoghi lontani, in terre straniere. Forse, però, il passato è un paese straniero. All’inizio, ogni cosa che vediamo è un’esperienza piacevole da catturare, da assaporare. Il lusso di osservare, il lusso di perdere tempo. Il tempo è un lusso», così riporta Elisabetta, in una specie di diario che diventa il testo su cui si fonda l’immaginifico documentario di Ruth Beckermann, Ein flüchtiger Zug nach dem Orient. Un altro modo per raccontare un’identità incerta che cerca in sé e negli altri qualcosa che riveli il senso del mondo e dell’esistenza.