Una marxista che diffidava del marxismo
Come tanti altri, sono andato a farle visita con Raissa nella sua casa romana degli ultimi anni, trovandola inabile a tutto e però irrequieta quel che basta per trafiggere uno […]
Come tanti altri, sono andato a farle visita con Raissa nella sua casa romana degli ultimi anni, trovandola inabile a tutto e però irrequieta quel che basta per trafiggere uno […]
Come tanti altri, sono andato a farle visita con Raissa nella sua casa romana degli ultimi anni, trovandola inabile a tutto e però irrequieta quel che basta per trafiggere uno stolto con una battuta soave.
Mi proponevo di portare con me un bambino di quattro anni, pestifero. Rinunciai all’ultimo momento, temendo il baccano e il disordine puerili. Rossana se ne dispiaque, voleva baccano e disordine di ogni tipo, nei meandri ctonii del lavoro precario come pure nel tinello di casa sua.
L’ho conosciuta in modi non banali durante il processo “7 aprile”, quello intentato dal Pci contro l’area dell’autonomia, nel quale ero imputato prigioniero.
Ogni mattina, prima dell’inizio dell’udienza, un sorriso austero di Rossana davanti alla gabbia in cui eravamo rinchiusi, domande anche personali, critiche alle nostre scelte difensive e, più ancora, ai nostri spocchiosi (ma illuminanti) convincimenti teorici. Rossana prendeva abbastanza sul serio la lotta politica, da non esitare a rimproverare con foga chi se ne stava con i ferri ai polsi.
L’analisi della controrivoluzione capitalistica (non restaurazione, ma rivoluzione al contrario), vale a dire la decifrazione di un processo produttivo ormai incardinato alla comunicazione e al sapere, era una cosa troppo seria, ai suoi e ai nostri occhi, per lasciare posto a lamentazioni umanitarie. Rossana fu solidale con i prigionieri dei processi politici perché non li trattò mai da minorati o impotenti. Le sue critiche, alle quali rispondevamo a tono e talvolta con sarcasmo, ci fecero evadere a tratti dalla gabbia da zoo, conficcata al centro dell’aula processuale. Te ne sia dato merito, Roxi cara.
Negli anni successivi, a processo concluso, discutemmo di tutto, su tutto dividendoci. Aprimmo contese sui sentimenti prevalenti negli anni Ottanta (l’opportunismo e il cinismo, per intenderci), sulla forma che avrebbero preso le rivolte del lavoro intermittente, su Stephen King, sulla nozione di esodo contrapposta a qualsiasi gestione alternativa dello Stato.
Al termine di ogni contesa, ci toccò constatare l’insorgere di una complicità imprevista, che ci separava dalla sinistra vecchia e nuova. L’unica complicità che vale è quella che si sarebbe voluto evitare. I riti con cui festeggiavamo questa pregevole complicità sono stati i thriller americani, visti all’ultimo spettacolo nelle prime file dei cinema.
Rossana è stata una marxista che, diffidando del marxismo, leggeva Marx.
Intuì che negli anni Sessanta e Settanta vi fu il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista all’interno di un capitalismo pienamente sviluppato: quindi il primo e unico tentativo di rivoluzione propriamente marxiano. Marx senza aggettivi, non corretto da gocce edificanti di Habermas o dalla sbobba di Rawls.
Marx non ridotto a Gramsci, per dirla tutta.
E Rossana è stata, sia pure per vie traverse, una materialista: sapeva che cosa le stava facendo il suo corpo riottoso e svogliato, e che non c’era nulla al di qua o al di là di quel corpo.
Sono commosso quel tanto da permettermi una battuta a effetto, per la quale domani proverò imbarazzo: amica strana e perfino tenera, mi dispiace di non aver recato con me, in visita a casa tua, quel bambino schiammazzante e bellicoso, presagio degli schiamazzi di ampio respiro che avresti amato e sui quali ci saremmo divisi, comme d’habitude.
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