Una lezione di democrazia
Tsipras si riprende il titolo di sorpresa politica di questa storica fase europea e indice un referendum sull’ultimatum della Troika. Anche tra chi aveva visto con scetticismo l’operato del governo […]
Tsipras si riprende il titolo di sorpresa politica di questa storica fase europea e indice un referendum sull’ultimatum della Troika. Anche tra chi aveva visto con scetticismo l’operato del governo […]
Tsipras si riprende il titolo di sorpresa politica di questa storica fase europea e indice un referendum sull’ultimatum della Troika. Anche tra chi aveva visto con scetticismo l’operato del governo greco – troppo tiepido nella negoziazione e troppo perentorio nel negare la possibilità di uscita dall’euro – la mossa non può che suscitare approvazione: la logica di riuscire, nel mezzo dell’aggressione europea delle istituzioni, a mantenere il sangue freddo e chiedere che il popolo greco si pronunci è una lezione di democrazia.
Da questo momento è lecito aspettarsi che il terrorismo mediatico non avrà limite: il popolo greco dovrà essere spaventato con l’armamentario di menzogne della propaganda al fine di votare sì. E lo spettacolo è già cominciato, tra indiscrezioni sulla fuga dei depositi, i soliti sondaggi e l’apocalissi di calamità che conseguirebbero da una vittoria dei no.
Per questo è importante capire che l’unica speranza di farla finita con questo incubo collettivo in Europa è che prevalga il no al referendum, e dare forza agli argomenti della ragione per contrastare quella che probabilmente sarà una vera e propria guerra mediatica, dove l’arma risolutiva purtroppo la detiene la Banca Centrale Europea, attraverso la linea di finanziamento d’emergenza (Ela). Il punto, che non sembra turbare la gran parte dell’opinione pubblica europea, è che la decisione campale sul fallimento o meno di uno Stato membro stremato da cinque anni di Memorandum, è nelle mani di un istituzione indipendente, la Bce.
L’altra Europa non è possibile
Il tentativo di Alexis Tsipras, tanto generoso quanto disperato, seppur non dovesse salvare l’Europa avrà il merito di squarciare il velo d’ipocrisia dominante in questi anni. Se vince il no, ci risveglieremo da una colossale bugia che ci siamo raccontati. Sarà dura, ma sarà pur sempre meglio che questa Europa, l’unica che abbiamo conosciuto, che è quella del sì al referendum.
Scriveva Hannah Arendt nelle Origini che il terrore è lo strumento con cui l’ideologia (la-logica-di-una-idea) s’impone sulla realtà con cui si scontra. La fine dell’egemonia tedesca e del sogno collettivo della Pax Europea (o franco-tedesca) lascia spazio alla violenza: gli ideali di uguaglianza e le barriere al mercato che decenni di lotte avevano costruito in questo continente non sono nemmeno più parte del discorso. Ormai il nervosismo del capitale è tale che siamo all’attribuzione di responsabilità ai poveri e ai disoccupati della propria condizione, per scarsa competitività. È una vergognosa colonizzazione del simbolico, che ci vuole tutti imprenditori, innovatori, self made man.
Diceva Bobbio che la democrazia si ferma alla porta della fabbrica. Esplosa la fabbrica, la sua logica ha travolto la democrazia laddove essa si era stabilita. Oggi è tempo di ripristinarla. Solo facendo marcia indietro sull’integrazione finanziaria si ricostruisce lo spazio di azione politico per tornare a parlare di diritti sociali e per regalare a ciascuno la sua narrazione di vita. Al mito costituente o alle scatole vuote alla Laclau, in cui aggregare i movimenti, si deve opporre la libertà e autonomia di questi ultimi, ma dentro a un contesto di politica economica dove ci sia margine d’azione per realizzarne l’agenda.
Fine dell’euro
In questi mesi in Italia si è dibattuto molto sull’eventuale uscita dall’euro. Giunti a questo punto, è importante precisare i termini della questione.
Dalla storia della fine degli accordi di cambio possiamo apprendere, ma non molto. L’evidenza ci dice che ciò che segue al crollo non è così drammatico come viene, deliberatamente, dipinto; e soprattutto implica scelte politiche chiaramente di parte, o a favore del lavoro o del capitale.
Tuttavia, l’evidenza non è appunto sempre calzante: la stima dell’impatto di un evento di questo tipo ha bisogno di un controfattuale, cioè di uno scenario che ci permetta di osservare cosa succederebbe senza il crack. L’unico modo sarebbe trovare un’area comparabile (o le cui differenze siano tutte misurabili) con l’area euro. Senza entrare nel tecnico, l’esperienza storica presenta tre problemi principali: (a) mentre processi di integrazione commerciale comparabili si osservano in altre epoche storiche, gli attuali livelli di integrazione finanziaria sono storicamente un unicum. (b) In secondo luogo, esperienze di fine di accordi di cambio sono comunque solo parzialmente comparabili con la necessità di reintrodurre una moneta. (c) Banalmente i tassi di cambio si muovono: le determinanti che portano alla fine del cambio fisso stanno agendo anche sui paesi che non stavano dentro l’accordo, distorcendo la misura del controfattuale.
Anche la potenziale analogia con il crack della Lehman Brothers è poco calzante. L’unico aspetto coincidente è il pressapochismo e la stupidità politica della classe dirigente: ciò che si osservò dopo il crack fu quello che gli economisti chiamano il problema dei lemons (i bidoni). Tutti sapevano che c’erano banche solvibili e banche con un sacco di spazzatura a bilancio, in assenza di informazione completa i tassi riflettono l’esigenza di coprirsi se si finisce a prestare soldi ai bidoni, ma a quei tassi le banche pulite non si indebitano perché essi sono punitivi. Risultato: i prestatori sanno che solo le banche fritte chiederanno soldi e nessuno presta soldi a nessuno, con il risultato che il mercato scompare, come accadde all’interbancario in quel triste episodio.
In secondo luogo, l’uscita della Grecia sancirebbe de facto la fine dell’euro. Al primo vento di crisi, sui mercati finanziari l’unica domanda rilevante diverrebbe «a chi tocca stavolta?»
Infine, bisogna rilevare che, comunque vada, la Grecia ha un margine di manovra molto ristretto: senza base industriale e massacrata dalla Troika e dai suoi Memorandum, andrebbe comunque in deficit di partite correnti, per il limitato margine sul lato dell’export e perché le importazioni aumenterebbero di costo e sarebbero poco sostituibili nel breve periodo. È ovvio che le manovre di dialogo con Russia e Cina di questi giorni hanno rappresentato un segnale strategico da parte del governo greco ai partner europei. È altrettanto ovvio che dal punto di vista geopolitico le conseguenze fanno rabbrividire: l’Ucraina e storicamente la stessa Grecia dei colonnelli (per non citare l’America Latina) sono testimonianze della (assenza di) tolleranza americana delle invasioni di campo.
Una chiosa politica
A livello politico, quella del sì sarebbe una vittoria di Pirro. Di fronte a una nuova dose di austerità, il paese non reggerebbe comunque e al prossimo giro il testimone passerebbe alla destra neonazista di Alba Dorata.
Deve essere chiaro, però, che qualora la Grecia uscisse, qualsiasi tentativo estremo di chiedere ragionevolezza alla Germania per stabilizzare l’euro sarebbe semplicemente scegliere di stare in buona fede dalla parte sbagliata. Se la Grecia esce, l’unica strada possibile per la sinistra è fuori dall’euro. Ora come non mai, siamo tutti Greci. Semplicemente per il No, dalla parte di Tsipras.
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