In quale momento preciso una persona comune diventa uno scrittore? Si tratta di un istante perfetto e compiuto, un clinamen misterioso e solo apparentemente causale, una metamorfosi interiore che però ti cambia la vita. La ricerca di questo graal può occupare un’intera esistenza con la forza indomita di una passione e con la tenacia incassatrice di una devozione generosa. Dopo l’incursione storica de Il cannocchiale del tenente Dumont, romanzo finalista al Premio Strega, e i racconti del Peninsulario, Marino Magliani ci seduce con un’opera fatta di letteratura, Il bambino e le isole (un sogno di Calvino) (66thand2nd, pp. 192, euro 17); un viaggio silvano dentro la scrittura in cui l’autore ha come doppio Italo Calvino, di cui si celebra il centenario della nascita.

In un gioco rifrangente ma per nulla deformante, lo stesso Calvino si confronta con un doppio onirico che lo accompagna nella sua catabasi verso il punto zero della sua scrittura. Da lì tutto è partito, dopo aver perduto il pallone e aver inseguito un treno, struggente allegoria del varco della linea d’ombra esistenziale. Là e allora l’incontro con Walter Benjamin è il puntcum della scoperta della scrittura. L’immagine e il segno dell’infanzia sono l’entelechia del suo destino. Parola esagerata – delle proprie avventure, scanditi da incontri non casuali, bevendo vino dopo i discorsi.

TRA QUESTI, con Carlo Levi, il disegnatore di isole. Si incontrano ad Alassio. Prendono respiro davanti al mare. Oggi si vede la Corsia. E Italo racconta a Carlo il rimpianto di aver perduto il contatto con ciascuno dei tanti scrittori che ha dovuto leggere. È stato come se ogni volta mi fossi negato a lui. Invece, di scrivergli chi sono io. Di dirgli io ti conosco.
«Ma una cosa del genere non è un romanzo, è piuttosto una mappa, qualcosa di puramente geografico e nello stesso tempo cronologico». Potremmo, dunque, azzardare che sia una forma di scrittura partorita dalla letteratura. E sarebbe piaciuta a Piero Citati. Ma forse avrebbe fatto storcere il naso a chi come Carmelo Bene ritiene che solo ciò che vada oltre la letteratura può essere poetico. Ciò che fuoriesce dalla letteratura può «accedere all’iperuranio del gesto puro. Questo il poeta deve cercare. L’aion dell’eterno. Non il cronos della cronaca annunciata e archiviata». Solo che Magliani non è un monstre che cerca la sua chimera. Disdegna le altezze artificiali per scalare quelle naturali della sua Liguria per poi immergersi in una natura che aderisce così compiutamente all’animo di questo viaggio da sconfinare dal corredo dell’ambientazione per farsi testo, impastandosi inconfondibilmente con l’esperienza letteraria. Come lo stesso autore scrive nella nota, ha finito per raccontare una Liguria orizzontale, diversa dalla sua solita, situata al livello del mare e dritta come lo sono i binari.

«SE C’ERA UNA COSA in tutti quegli anni che aveva perso, strada facendo, era il senso del tempo, e in qualche modo i libri di Calvino avevano rimediato. Uno dopo l’altro fornivano un po’ di ordine cronologico alla sua esistenza ferroviaria». Magliani ha cercato come un pioniere questa vena insieme ligure ed europea, come sempre nella sua scrittura, confermando che il romanzo di scrittura e una variante poetica dell’opera di traduzione di cui l’autore è un magistrale testimone. In questo viaggio, vissuto come un sogno, condiviso con Giuseppe Conte, l’amico poeta dai capelli bianchi, ciò che vediamo non vale per stesso ma come segno d’altre cose. Come il viaggiatore de Le città invisibili riconosciamo il poco che è nostro, scoprendo il molto che abbiamo perduto.