Un “piano B” per uscire dalla Nato
L’appello di Angelo Baracca apparso su il manifesto qualche giorno fa per una “convenzione nazionale pacifista” ci sembra centrato e condivisibile. Come Rifondazione Comunista e come pacifisti irriducibili aderiamo con […]
L’appello di Angelo Baracca apparso su il manifesto qualche giorno fa per una “convenzione nazionale pacifista” ci sembra centrato e condivisibile. Come Rifondazione Comunista e come pacifisti irriducibili aderiamo con […]
L’appello di Angelo Baracca apparso su il manifesto qualche giorno fa per una “convenzione nazionale pacifista” ci sembra centrato e condivisibile. Come Rifondazione Comunista e come pacifisti irriducibili aderiamo con convinzione ritenendo che l’appartenenza del nostro Paese alla Nato sia uno dei problemi in cima alla classifica dei disastri nazionali (e globali).
L’Italia ha già accumulato pesantissime corresponsabilità di guerra verso i popoli di altri Paesi non ostili.
Non intendo riproporre le condivisibili argomentazioni che sono state esposte nell’appello ma ritengo utile aggiungerne altre per rafforzare la necessità politica del salto epocale che comporterebbe l’uscita del nostro Paese dall’alleanza militare più belligerante del mondo.
Abbiamo un serio problema con il complesso militare-industriale occidentale.
E’ stato detto, giustamente, che gli azionisti dell’industria militare sono stati gli unici ad averci guadagnato dalla guerra mondiale a pezzi scaturita dalle esportazioni “democratiche ed umanitarie” della Nato e delle “coalizioni di volenterosi”.
Un dato fondamentale che purtroppo viene scarsamente considerato anche dai pacifisti è che l’84% della produzione globale di armi e sistemi d’arma è controllata da multinazionali statunitensi, europee e da alleati strategici come Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti.
La guerra è un processo produttivo e chi tira la carretta della corsa agli armamenti globali (compresa, secondo il Sipri, l’internazionalizzazione della filiera bellica) è il blocco euro-atlantico con gli Stati Uniti come capofila inossidabile.
Il cieco e imbarazzante atlantismo del nostro Paese è retto ed eterodiretto da una relazione tra l’industria bellica nazionale (Leonardo, Fincantieri ma non solo) e quella anglo-statunitense: parliamo di un sistema di controllate e joint venture che produce la quota più consistente del fatturato bellico tricolore all’estero e determina l’asse strategico del Paese…
Tutto ciò aggravato da un ventennio in cui il management governativo ha svuotato Finmeccanica (poi Leonardo) dei suoi asset civili per puntare tutto sull’hi-tech militare, ahi noi con l’avvallo sconsiderato dei sindacati confederali.
In un turbinio di porte girevoli tra politici, generali, ammiragli, servizi segreti e cariche aziendali il fatturato di Leonardo “one company” è diventato ufficialmente il pilastro della politica estera, militare ed industriale nazionale. Le forze armate, il “cliente domestico”, sono dichiaratamente diventate il vuotatoio ad alta tecnologia dell’industria che così si vede garantite dallo stato ricerca, sviluppo e commesse.
Le stesse forze armate spedite in giro per il mondo sono considerate da Alessandro Profumo, ad Leonardo, la migliore vetrina del “prodotto” per i clienti stranieri.
Infine con la norma “Government to Government” voluta dal ministro Guerini (PD) ai tempi del Conte bis, il ministero della Difesa è stato trasformato in agente di commercio internazionale dell’industria bellica nazionale.
Sarebbe tempo di fare i conti, in forte ritardo, con la contro riforma che ha permesso tecnicamente e giuridicamente al nostro Paese di stare nella Nato e in tutte le sue guerre post ‘89. La professionalizzazione delle forze armate avviata col Nuovo Modello di Difesa all’indomani della prima guerra del golfo nel 1991 rispose ad una precisa richiesta degli Stati uniti agli alleati dopo l’implosione sovietica: non più fanteria d’arresto ma corpi di spedizione da proiettare ovunque. Lo standard organizzativo adottato fu quello anglo-statunitense. Un esercito divoratore di alta tecnologia con una truppa volontaria, di mestiere, socialmente ricattabile e con una ferma di almeno quattro anni è un requisito fondamentale per gestire guerre d’aggressione ed occupazioni militari in più Paesi contemporaneamente e per garantire dividendi sostanziosi all’industria di riferimento.
Un modello tecnico-organizzativo indispensabile per qualsiasi politica estera interventista e neocolonialista.
La moderna carne da cannone è molto più gestibile: passa dallo status di eroe (volontario, era il suo mestiere…) se cade sul campo di guerre inutili a quello di fantasma se si ammala e muore a causa dell’esposizione all’uranio impoverito.
La Nato è tutto questo: standard tecnologici e organizzativi, grandi esercitazioni continentali e nemici inventati da combattere. Le basi Nato/statunitensi sul nostro territorio e le bombe nucleari in esse custodite sono l’ipoteca più grande sul nostro futuro, per avere in cambio un presente/passato di guerra permanente ed instabilità.
La Sinistra europea, di cui Rifondazione è membro, si è recentemente dichiarata fermamente contraria al riarmo europeo in atto e per lo scioglimento della Nato.
Trent’anni di professionalità bellica possono bastare: è tempo di mettere in discussione l’attuale modello di “difesa” strutturalmente offensivo per ripensarlo da cima a fondo ed utilizzarlo (industria di riferimento compresa) a “casa nostra”, a supporto di Protezione civile e Vigili del fuoco, nelle emergenze che scaturiscono dal caos climatico montante. Ci serve urgentemente un credibile e concreto “Piano B” per uscire dalla Nato.
Gregorio Piccin, responsabile dipartimento Pace
Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
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