Un passo avanti e due indietro sulla via del governo
Consultazioni L’esploratore Fico: «Dialogo avviato, il mio mandato finisce». Ma tra paletti e diffidenze, il confronto M5S-Pd non decolla. Marcucci: «Con la logica del fatto compiuto non si va da nessuna parte». Di Maio: «Non ci si può chiedere di rinunciare alle nostre battaglie»
Consultazioni L’esploratore Fico: «Dialogo avviato, il mio mandato finisce». Ma tra paletti e diffidenze, il confronto M5S-Pd non decolla. Marcucci: «Con la logica del fatto compiuto non si va da nessuna parte». Di Maio: «Non ci si può chiedere di rinunciare alle nostre battaglie»
Missione compiuta ma solo a parole. L’incarico esplorativo di Roberto Fico è terminato senza proroghe. «Il mandato ha avuto esito positivo. Il dialogo tra Movimento 5 Stelle e Pd è avviato», spiega il presidente della Camera dopo un brevissimo colloquio col capo dello Stato. La reazione immediata del capo dei senatori Pd Andrea Marcucci, renziano di stretta osservanza, rivela subito che tanto ottimismo è nelle migliore delle ipotesi prematuro: «Con la logica del fatto compiuto non si va da nessuna parte. La Direzione del Pd dovrà decidere se aprire o meno il confronto».
IL PASSAGGIO sulla semplice apertura di dialogo, concetto già sottolineato da Marcucci subito dopo la consultazione mattutina della delegazione Pd, è essenziale. Sergio Mattarella, fedele alla logica che ha scelto di seguire e che comporta la riduzione al minimo dei suoi interventi e del suo ruolo, ha di fatto gettato la palla nel campo del Pd, o più precisamente nelle mani di Matteo Renzi. Sarà lui e di fatto solo lui a doversi assumere la responsabilità di portare la legislatura a un millimetro dallo scioglimento immediato o a dover accettare un percorso avviato e gestito da altri, da quelli che oggi sono la sua controparte all’interno del partito, sancendo così la propria marginalità.
Mettere un tipo come Renzi in un simile vicolo cieco però è pericoloso, e non c’è dubbio sul fatto che giovedì prossimo la Direzione sarà chiamata a esprimersi solo sull’eventuale apertura di una lunga trattativa, che Renzi cercherà in ogni modo di condizionare sin nei particolari. In questo modo, la palla sarà restituita al Colle, ma in ogni caso la pausa servirà a scavallare il 10 maggio, data oltre la quale non sarà più possibile votare prima della pausa estiva e di eventuale scioglimento si riparlerà a settembre. Ma anche questo obiettivo minimale è in realtà a rischio.
Luigi Di Maio, e dopo di lui il capo dei senatori 5S Danilo Toninelli, non hanno aiutato a sbloccare la situazione. Casomai hanno reso il percorso più impervio. Uscendo dalla consultazione, il reggente del Pd Maurizio Martina si era allargato, parlando di «passi avanti importanti da parte dei 5 Stelle»: un’allusione alla chiusura ufficiale del dialogo con la Lega. Alla quale peraltro molti non credono.
DOPO DI LUI DI MAIO esprime sì «apprezzamento» per le aperture di Martina, poi però mette le mani avanti: «Chiedo uno sforzo al Pd: non ci si può chiedere di rinunciare alle nostre battaglie storiche. Non ci si può fossilizzare per partito preso sull’idea di difendere tutto quello che hanno fatto i governi in questi anni».
In ballo non c’è un’alleanza ma, prosegue il leader pentastellato, solo «un buon contratto al rialzo», un accordo evidentemente transitorio, su cose da fare. Subito dopo il capogruppo Toninelli si produce in un’acrobazia che al confronto le «convergenze parallele» di Aldo Moro sembrano un giochetto: «Movimento 5 Stelle e Pd sono forze alternative. Però vogliamo lavorare per un contratto su cose specifiche».
La spiegazione di questi improbabili contorsionismi è evidente. I dirigenti di M5S sanno perfettamente che far ingoiare ai loro elettori l’accordo con il Pd non è facile. L’unica è sottolineare in tutti i modi che non si tratta certo di una «riabilitazione» di Renzi. Per questo, però, devono mantenere alto un livello critico, ai confini dell’ostilità aperta, proprio nei confronti del leader da cui dipende la possibilità di firmare o meno quel contratto, che è proprio Matteo Renzi.
ALLO STESSO FINE, Di Maio si lancia in un inatteso affondo contro Silvio Berlusconi, consapevole che niente garantisce purezza agli occhi della base quanto scagliarsi contro «il Caimano»: «Berlusconi utilizza televisioni e giornali per mandare velate minacce a Matteo Salvini, ove si sganciasse. E’ il momento di mettere mano al conflitto di interessi: un politico non può essere proprietario di mezzi d’informazione».
Berlusconi replica inviperito: «Linguaggio da esproprio proletario anni ’70». Ma l’uscita non piace neppure al Pd, area trattativista inclusa, che sospetta il leader dei 5 Stelle di aver solo interrotto e non chiuso i tentativi di accordo col Carroccio. Lo stesso Matteo Salvini sta ben attento a far capire che lui quella partita non la considera affatto persa.
IN QUESTA SITUAZIONE la via maestra di una accordo politico M5S-Pd è già chiusa, ammesso che sia stata aperta. La strada per un’intesa potrebbe passare per soluzioni più «morotee» e sfumate, come una qualche forma di appoggio esterno del Pd a un governo non presieduto da Di Maio. Ma per questo ci vorrebbe una guida politica, e quel ruolo il Quirinale ha deciso di non giocarlo. Almeno per ora.
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