Editoriale

Un normale miracolo quotidiano

Un normale miracolo quotidianoRoma, Teatro Eliseo, 15 febbraio 1970: prima uscita pubblica del gruppo-rivista Il Manifesto. Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri – Fausto Giaccone

#ilmanifesto50 La nascita del giornale, tra «giovani» del movimento e «vecchi» del partito. Un mondo ideale le origini del Manifesto, un’utopia realizzata o un idillio? Neanche un po’. Si litigava e ci si arrabbiavaIn redazione c’era chi amava di più Pintor, chi pensava che Rossanda fosse la «più grande», chi aveva timore di Natoli, chi era estasiato da Castellina o da Magri, chi era conquistato da Parlato. Per anni gli stipendi di noi «giornalisti rivoluzionari» furano quelli di un metalmeccanico di terzo livello, l’operaio base che aveva guidato le lotte dell’autunno caldo

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 28 maggio 2021

La prima riunione in via Tomacelli si svolse in un pomeriggio che era già sera alla luce delle candele.

La sede situata nel centro di Roma, a due passi da piazza di Spagna e dalle vie dello shopping di lusso della capitale, per un giornale comunista era un normale miracolo. E non stupisca l’ossimoro. Di normali miracoli era piena la vita del Manifesto delle origini. Avvenimenti eccezionali che non potevano che verificarsi.

Era un miracolo poter risiedere in una sede prestigiosa, era normale che fosse senza elettricità. Il contratto con l’azienda che io, giovane apprendista, ero stato incaricata di fare ( ai giovani spettava la manovalanza e ci piaceva molto), durante quella prima riunione, non c’era ancora, e, quindi, eravamo al lume di candela.

A tutti – vecchi e giovani, uomini e donne fino a qualche mese prima dirigenti del più grande partito comunista di occidente (lo ripetevano spesso) e ventenni che venivamo dal movimento a cui la politica del palazzo faceva schifo, sembrò normale. Non ne fu disturbata neppure Rossana (la più temuta) che apparve ad un certo punto avvolta in un mantello nero con la candela in mano e un sorriso divertito.

La prima di una lunga serie di riunioni cominciò così. Con me che avevo i sensi di colpa perché non ero riuscita a fare il contratto per l’elettricità e che, però, avevo un asso nella manica. Avevo acquistato delle magnifiche scrivanie degli anni trenta alla Croce Rossa, dove i ministeri e gli uffici di Roma depositavano i loro mobili vecchi poi rivenduti di seconda mano La sede sarebbe stata arredata. Anche lo sgabuzzino per le telescriventi che trasmettevano le agenzie di stampa era pronto. Insieme alla corrente elettrica sarebbe arrivato il magico ticchettio che in via Tomacelli 146 avrebbe portato il mondo.

Da quelle riunioni, senza ordine, prima al buio poi con qualche lampadina cominciarono a fluire gli altri normali miracoli del Manifesto delle origini. Sarebbe costato 50 lire, la metà di un altro quotidiano. Ce l’avremmo fatta.

Avevamo eliminato tutte le spese inutili. Il Pci romano aveva invaso la città con piccoli manifesti,«Chi li paga?» c’era scritto. I giovani ne erano indignati, i grandi non mossero un muscolo. «Chi li paga?». L’amministratore , Giuseppe Crippa che, prima di entrare a far parte del miracolo, era stato operaio della Dalmine non si scompose. Ne prese uno e lo incorniciò insieme alle prime cinquanta lire frutto della vendita militante del primo numero.

Gli stipendi? Nessun dubbio: dovevano essere uguali per tutti. Unica differenza fra anziani e giovani. I giovani, qualunque fosse il loro ruolo e il loro lavoro, prendevano 70.000 lire; i più vecchi qualunque fosse il loro ruolo e il loro lavoro 120.000 lire (circa mille euro di oggi, ndr). Lo stipendio di un metalmeccanico di terzo livello, l’operaio base che aveva guidato le lotte dell’autunno caldo.

Erano pochi soldi, ma erano molti. E questo era un altro miracolo. Che importanza avevano diecimila lire in più o in meno per chi durante il giorno rimaneva appiccicato ai rotoli delle agenzie o al telefono fisso per sapere se alla Fiat avevano scioperato e quali erano state le ultime conquiste dei Vietcong. Quei soldi erano più che sufficienti per un toast a pranzo e la cena in una trattoria.

Erano altre e più importanti le soddisfazioni della vita. Dovevamo realizzare e distribuire e vendere un giornale comunista.

Un mondo ideale le origini del Manifesto, un’utopia realizzata, una situazione idilliaca? Neanche un po’. Si litigava e ci si arrabbiava. Litigavano i grandi – sempre con grandissima buona educazione. Con un linguaggio, e delle modalità che agli occhi dei giovani abituati agli urli e agli entusiasmi del movimento parevano strani. Sui massimi sistemi della politica, sul futuro dei movimenti, sulle sorti del movimento operaio, sulla involuzione dei paesi socialisti.

Litigavano i più giovani sugli stessi argomenti. Ma con minori conoscenze e minore cultura. I grandi guardavano quei ragazzi che avevano scelto un po’ per caso cercando fra loro qualcuno che assomigliasse di più a loro, di cui fidarsi. Nei primi tempi non riuscivano a trovarlo ed erano delusi. I giovani guardavano i più grandi con ammirazione ma erano pur sempre parte di un mondo estraneo, quello della «politica fina» per la quale continuavano a nutrire un certo disprezzo.

Così amicizie e alleanze, solidarietà si interrompevano e si ricomponevano continuamente. I fili delle simpatie e delle propensioni dei giovani si annodavano e di disfacevano. C’era chi amava di più Pintor, chi pensava che Rossanda fosse la «più grande», chi aveva timore di Natoli, chi era estasiato da Castellina, chi ascoltava ammirato a bocca aperta i discorsi di Magri, chi era conquistato da Parlato.

Era anche questo un altro normale miracolo di quei primi anni: la diversità di età e di cultura, la ferocia della discussione sfociavano in un brillante prodotto giornalistico. La riunione del mattino che si concludeva con il titolo di prima pagina la sera. Tutti attorno al tavolo del redattore capo aspettando l’idea geniale di Luigi Pintor. E poi l’attenzione ai dati della distribuzione che un trentenne Filippo Maone monitorava uno per uno, edicola per edicola. Con una precisione che all’epoca a molti di noi sembrava puntigliosa e stravagante.

Il premio al quale ambivamo noi giovani alle prime armi? Certo non un aumento di stipendio e neanche la firma in prima pagina. Fra l’altro all’inizio gli articoli non erano firmati. Quello cui aspiravamo era essere inviati nei luoghi in cui si lottava. Allora in seconda classe (non essendoci una terza) ospitati dai compagni e mangiando panini realizzavamo il miracolo del giornalista rivoluzionario. Specie che si è completamente estinta. Ma di cui posso mostrare l’esistenza con qualche foto.

Non so come sia oggi la vita interna della redazione, conosco pochissimi di coloro che ci lavorano. Cinquant’anni sono tanti. E cinquant’anni che cominciano negli anni settanta sono ancora di più.

Mi sono chiesta se a chi ci lavora adesso capita di assistere ai tanti normali miracoli cui ho assistito io. Certamente è un miracolo che il manifesto sia ancora in edicola. Ma questo non ha niente di normale.

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