Anche se ci si pensa poco, alle spalle di tutti noi si snoda una catena infinita di parti: andando indietro nei secoli, fino a un tempo che ci pare muto perché le sue voci non si sono fissate in scrittura, possiamo scorgere dietro ogni individuo della nostra specie il ripetersi di una scena che culmina nell’attimo in cui, uscendo dal corpo della madre, un essere umano viene al mondo. Evocare il passato che precede la storia non è fuori luogo: nella nascita (e nella morte) l’animalità che la scrittura cerca di sconfiggere ci rivela quanto siamo simili agli umani delle epoche più remote. E questa animalità persiste, nonostante la cornice più o meno tecnologica, più o meno rassicurante, in cui si situa il parto, molto diversa dall’ambiente domestico di ieri, denso di tracce e di odori.

Sarà così a lungo? Non lo sappiamo, e non solo per le imminenti sperimentazioni umane sull’utero artificiale (anche se Cassandra Willyard su MIT Technology Review avverte che lo scopo non è sostituire l’utero materno, ma salvare la vita dei piccoli prematuri). Ben più inquietante è constatare che le nascite calano ovunque, tanto da rendere possibili, se non plausibili, le prospettive millenaristiche di chi vede la specie umana pronta a scomparire a breve. In questo quadro, però, è utile (e perfino confortante) inserire le esperienze del presente in un flusso più lungo e osservare come la scena della nascita si sia trasformata nei secoli – ché se la fisiologia del parto non cambia, cambia invece, e molto, il modo in cui questo evento per definizione naturale riflette la cultura del tempo e del luogo in cui si situa. Lo conferma, a partire dal titolo, il bel saggio di Alessandra Foscati Le meraviglie del parto. Donare la vita tra Medioevo ed Età moderna (Einaudi, pp. 195, € 26). Dove quella parola inattesa, “meraviglie”, ci riporta al senso di mistero e di stupore che ha suscitato a lungo il momento della “venuta al mondo”.

L’arco temporale scelto da Foscati abbraccia infatti i secoli che precedono quella che oggi definiamo la medicalizzazione del parto: il passaggio a uno sguardo scientifico e non più “favoloso”, l’uso di strumenti più sofisticati, infine in tempi recenti il trasferimento dalla casa a un ambiente sanitario. Come ha fatto notare Lucio Biasiori su Alias, non sono però solo le tecnologie a evolversi: se l’influenza della religione si fa sentire in tutto il periodo preso in esame dalla storica, colpisce il cambio di prospettiva avvenuto a partire dalla metà del Cinquecento.

Per secoli (lo aveva già segnalato Nadia Maria Filippini in Generare, partorire, nascere, Viella 2017), “dal mondo antico fino alla Controriforma, un orientamento condiviso dalla cultura, dalla medicina e dalla cultura privilegiava la vita della madre rispetto a quella del bambino”, dell’“albero” rispetto al “frutto”. Sebbene il tema non sia trattato apertamente nei testi medievali, scrive Foscati, “alcune testimonianze lasciano intendere che l’interesse fosse rivolto alla salvezza della donna, a scapito di quella del feto”. Forse perché – ci si chiede – la gestione del parto era allora affidata alle donne, la levatrice e le parenti e le amiche della partoriente, e la presenza maschile era pressoché inesistente? Sta di fatto che a partire dal concilio di Trento “la salvezza dell’anima del bambino acquisì via via un significato superiore rispetto alla tutela della vita della madre”, e il saggio di Foscati è ricco di esempi che mostrano come in questa ottica il momento del parto passi in secondo piano rispetto a quello del battesimo, al punto da dare origine al “miracolo à répit”, il “miracolo del respiro”, che “resuscita” il neonato il tempo sufficiente a garantirgli la vita eterna (e spesso a sistemare complicate questioni ereditarie).

Colpisce di più, però, che quasi tutte le testimonianze di cui disponiamo “vennero scritte da uomini i quali, in moltissimi casi, nemmeno ebbero modo di entrare nella stanza del parto”. E se questo sembra normale in epoca antica o nel Medioevo, essendo allora esiguo il numero delle letterate, diventa motivo di stupore nell’Età moderna, quando “le nobildonne scrivono”, e abbiamo numerose lettere in cui raccontano “degli inconvenienti della gravidanza, delle nausee, dei dolori, dei cambiamenti a cui andava incontro il loro corpo, delle loro paure”. Nulla, però a parto avvenuto, “sul modo in cui si era svolto, sul dolore provato, sui pensieri che avevano attraversato la loro mente”. Forse, ipotizza Foscati, perché “il parto era un momento intimo e soprattutto doloroso, e lo si voleva cancellare al più presto dalla memoria, evitando di alimentare paure”. O forse perché tradurre in parole l’animalità del parto era un’impresa percepita come sovrumana e insieme sconveniente. Oggi è diverso?