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Grembi femminili come vasi di Pandora e salvezza dell’anima

Grembi femminili come vasi di Pandora e salvezza dell’animaXilografia con scena di parto dal libro Der Rosengarten, 1513, celebre trattato sul parto del medico tedesco Eucharius Rösslin

Saggi di storia Con ampia documentazione medica, giuridica, letteraria, Alessandra Foscati esamina le azioni compiute su neonato e madre tra Medioevo ed età moderna: Le meraviglie del parto, per Einaudi

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 12 novembre 2023

Oggi quello del parto è un momento così affollato che spesso nemmeno il padre ha diritto ad assistervi. E una volta? Sfogliando il bel libro di Alessandra Foscati, Le meraviglie del parto Donare la vita tra Medioevo ed Età moderna (Einaudi «Storia», pp. IX-195, euro 26,00), scopriamo che anche nel passato intorno al grembo della partoriente si accalcava una piccola moltitudine di persone. Anche allora i loro gesti, rapidissimi per l’urgenza della situazione, erano accompagnati da una strumentazione impressionante per vastità e varietà. Al posto di forbici e forcipi, ventose, aghi e garze, c’era però una congerie di amuleti, documenti consacrati dalla benedizione papale da leggere e poi in caso far ingerire alla partoriente (i cosiddetti brievi), unghie d’asino e cavallo, calamite, pietre trovate nel ventre di una rondine, piume d’aquila (meglio se cavate dall’ala sinistra), cuori di gallina appena estratti da legare stretti alla coscia della partoriente, e poi vino, da far bere al neonato o all’ostetrica se c’era bisogno di praticare una respirazione bocca a bocca che lo rianimasse.

Ma rianimarlo per ottenere che cosa? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre se vogliamo capire le differenze tra ieri e oggi, a meno di non accontentarsi di una spiegazione in termini di progresso tecnologico, che però si limiterebbe a spostare il problema. Ebbene, la rianimazione del neonato veniva spesso tentata solo per permettere al prete – o, in caso di estrema necessità, anche all’ostetrica – di impartirgli il battesimo e fare così in modo che fosse salvata la cosa più importante: non il suo corpo, ma la sua anima. Se poi il bambino sopravviveva, il sacerdote avrebbe impartito un nuovo battesimo, che però era un battesimo sub conditione, come si diceva, dove il prete non pronunciava la formula usuale, ma ne recitava un’altra: «se sei battezzato, non ti battezzo, ma se non sei battezzato ti battezzo».

Meglio non rischiare, visto che quelle illetterate delle ostetriche potevano aver sbagliato la formula rendendo perciò nullo il battesimo, mentre d’altro canto sulla ripetizione del sacramento aleggiava l’accusa di sacrilegio. C’erano addirittura dei santuari apposti – detti à repit (del respiro) – dove si pregava per garantire al neonato morto una resurrezione provvisoria, giusto il tempo per somministrargli il battesimo. Erano pratiche che si prestavano ad abusi: martellando con la sua pastorale della paura, la Chiesa medievale e controriformistica scatenava nelle famiglie un’ansia dai cui eccessi doveva poi difendersi. Sappiamo infatti di riesumazioni sommarie, palpazioni alla ricerca di movimenti interni al corpicino «come quelli di una talpa che cerca di salire dal terreno» e altri abusi che spinsero le autorità ecclesiastiche a guardare con sempre maggiore diffidenza a queste pratiche.

Dal canto suo, la scienza ufficiale scruta gli uteri femminili come fossero dei vasi di Pandora da cui non si sa mai quello che potrebbe venire fuori. «Affirmare quid intus sit divinare est» – dicevano i medici. A volte, come avvenne a Sens alla fine del Cinquecento, poteva uscirne quella che le fonti chiamano una «bambina di pietra», che circolò come curiosità scientifica nelle Wunderkammer di mezza Europa fino all’Ottocento e forse era qualcosa di simile a quella che ancora oggi – con un tic linguistico significativo della vischiosità di certi pregiudizi – si chiama appunto «mola» ed è in realtà una malattia legata alla proliferazione eccessiva della placenta. In caso di adulterio era addirittura diffusa la credenza secondo cui, assieme al normale feto, le donne avrebbero dato alla luce anche un essere mostruoso, simile a un animale nobile come lo sparviero se la donna aveva giaciuto con un nobile, a un animale quotidiano come il gufo o la lucertola se con un contadino.

Lo stesso poteva accadere se il concepimento era avvenuto durante il periodo mestruale. «Menstruum quasi monstruum» – chiosavano dottamente medici e scienziati e, leggendo la sicumera di certe diagnosi, viene davvero da chiedersi come mai nessuno andasse a cercarli con il forcone, come pure qualcuno di loro temeva che prima o poi sarebbe successo: «noi non ci potremo difendere con quei che diranno che siamo una bella mano di bufali», notava con preoccupazione uno di loro. Inutile dire che la colpa di questi accoppiamenti innaturali veniva scaricata tutta sulle donne, anche se il celebre medico padovano Michele Savonarola – nonno dell’ancor più celebre Girolamo – ammoniva anche il «vechio sagurato che togli la moglie zoveneta, arecordate che ingenerarai una mandragola». In generale però, anche nei momenti in cui si rompe quel primato della salvezza dell’anima su quella del corpo di cui si parlava sopra, il corpo è in primo luogo quello del bambino, specie se maschio ed erede di famiglie nobili, più che quello della madre.

Per tutto l’antico regime medico – e in modo molto più intenso durante la ‘moderna’ Controriforma che nell’arcaico Medioevo – questa era quella che Kuhn avrebbe definito scienza normale, anteriore a quel cambio di paradigma che si sarebbe sviluppato, ma sempre con fatica, a partire dall’Ottocento e avrebbe visto una crescente medicalizzazione del parto con conseguente discesa del tasso di mortalità infantile.

Il libro di Alessandra Foscati trabocca di esempi come questi, che in alcuni casi forse vengono più descritti che realmente sviscerati, come si sarebbe potuto desiderare in un libro dedicato a questo tema. Penso ad esempio alle pagine sul latte come vettore dell’essere, dove il quadro avrebbe potuto essere esteso a quanto avvenne nella penisola iberica a seguito delle conversioni forzate di marranos e moriscos, i discendenti degli ebrei e dei musulmani che avevano deciso di non lasciare la loro patria dopo la fine della reconquista con la caduta di Granada nel 1492. In quegli anni, oltre all’ossessione per la limpieza de sangre, per la purezza di un sangue che per chi voleva ricoprire qualunque incarico pubblico non doveva contenere tracce ebraiche o arabe da almeno tre o quattro generazioni, si sviluppò un’analoga paranoia nei confronti del latte materno, considerato veicolo di trasmissione di una diversità che ormai non era più religiosa – marranos e moriscos erano infatti cristianos nuevos, essendo stati tutti battezzati – ma sempre più biologica: «estos cristianos nuevos tienen su secta desde la teta, como por naturaleza» – dirà Pedro Zárate, inquisitore di Valencia nel 1587. Non era una metafora, ma la presa d’atto che non avrebbero abbandonato le loro antiche usanze per timore di alcuna punizione, nemmeno sotto minaccia del rogo. L’unica soluzione era quella di espellerli, come infatti sarebbe avvenuto, in massa, pochi decenni più tardi a migliaia di moriscos. Osservato da questo inquietante punto di vista, l’antico regime si è dimostrato più resistente a ogni cambio di paradigma di quanto si sarebbe potuto pensare.

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