Al rientro dalle vacanze studenti e professori troveranno le università cambiate. Un mese fa un decreto ha tagliato 513 milioni in corso d’anno, in particolare le spese non vincolate, sollevando le proteste della Conferenza dei rettori (Crui) e del Consiglio universitario nazionale (Cun).

Ieri il governo ha approvato un disegno di legge che cambia profondamente le figure previste per i giovani ricercatori e per i docenti esterni. A fare ricerca (e, spesso, lezione) potranno esserci neolaureati magistrali (assistenti di ricerca junior), neodottorati (assistenti di ricerca senior), contrattisti post-doc (che rimpiazzano gli attuali assegnisti di ricerca), mentre resta congelato il contratto di ricerca che offriva tutele e remunerazioni dignitose, a costi maggiori per gli atenei. Per di più, i corsi universitari potranno avere come docenti «professori aggiunti»: esperti esterni incaricati direttamente dai rettori.

Il disegno di legge lascia grande incertezza – forse in attesa di verificare le reazioni che verranno – sulle procedure di selezione, sui compensi e sulle regole. Altri interventi sono stati annunciati dalla ministra Anna Maria Bernini, che ha ricevuto nei mesi scorsi un’ampia delega per la riforma dell’università all’interno del disegno di legge «Semplificazione». Molte cose potranno ancora cambiare prima della riapertura.

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Le misure prese finora dal governo si scontrano con tre nodi di fondo. Il primo è il sottofinanziamento strutturale dell’università e della ricerca in Italia. Il «Tavolo tecnico» insediato dal governo Draghi due anni fa chiedeva di stabilizzare la ricerca pubblica allo 0,75% del Pil, sfiorato nel 2023 grazie ai finanziamenti straordinari e temporanei del Pnrr. Da quest’anno, con il Pnrr ancora in piedi, stiamo scivolando indietro, in un quadro europeo in cui siamo tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati sulla forza lavoro.

La seconda questione è la moltiplicazione del precariato. Le nuove figure coinvolgono già i neolaureati in forme di collaborazione poco precisate e trasparenti, ampliano le modalità con cui si si prolunga il limbo della ricerca instabile. Tutto ciò va a complicare una situazione già difficile: nel 2022 c’erano in Italia 12mila ricercatori a tempo determinato (A e B) e 19mila assegnisti: il 40% di tutto il personale di ricerca. Si è scelto di infittire il sottobosco del precariato, anziché offrire prospettive di crescita professionale ai giovani che tengono in piedi le attività universitarie, ed evitare la «fuga dei cervelli», visto che in un decennio 15mila giovani ricercatori italiani hanno trovato lavoro all’estero.

Per di più tra il 2022 e il 2027 c’è il pensionamento del 18% dei professori ordinari e associati: senza un piano adeguato di nuovi concorsi, c’è un rischio concreto di svuotamento degli atenei, sostituendo magari i docenti con «professori aggiunti» pescati dall’esterno.

La terza contraddizione riguarda l’enfasi sul merito e sulla valutazione della qualità della ricerca che ha segnato gli ultimi 15 anni delle politiche universitarie, a partire dall’Abilitazione scientifica nazionale, che ha orientato fortemente le traiettorie professionali dei giovani ricercatori. Tutto questo ora sembra dimenticato: le forme di reclutamento – sia dei nuovi precari della ricerca, sia dei «professori aggiunti» – prevedono di evitare in molti casi i concorsi. In cattedra potremmo avere sempre più persone scelte dai vertici degli atenei, ma che non sono passate attraverso alcuna verifica delle loro competenze.

In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata tra grandi atenei, premiati dai fondi speciali da un lato, e, dall’altro, le università piccole e periferiche, colpite dai tagli e indebolite dal calo delle iscrizioni. È anche questa – a modo suo – una riforma delle istituzioni del paese che ci allontana dai maggiori paesi europei, aggrava i divari interni, riduce gli spazi di mobilità e partecipazione sociale.