Quando l’esercito israeliano ha annunciato qualche giorno fa di avere un piano per un’offensiva in Libano contro Hezbollah in poche ore il prezzo dei generatori di corrente è aumentato di quattro volte nella regione di Haifa, a 30 chilometri dal confine libanese.

Era successo qualche cosa di simile nei giorni dello scontro tra Israele e Iran a seguito del bombardamento dell’ambasciata di Teheran a Damasco. Ma stavolta gli israeliani ritengono che Hezbollah potrebbe fare più male di quanto abbiano fatto militarmente gli ayatollah di Teheran, impegnati nella corsa alle presidenziali anticipate per la morte in un misterioso incidente di elicottero del presidente Ebrahim Raissi. Hezbollah, secondo gli stessi israeliani, ha un arsenale di 150mila razzi, e sarebbe in grado di colpire lo stato ebraico con 5mila ordigni al giorno.

E non è questa l’unica cosa che preoccupa Tel Aviv: la tecnologia del movimento islamico può incidere su rapporti di forza strategici che hanno visto finora Israele come un superpotenza imbattibile e intoccabile.

La guerra, come nel 2006, è pronta a esplodere nonostante i tentativi di mediazione americana affidati a un controverso ex ufficiale israeliano Amos Hochstein che ha fatto carriera nei corridoi del potere americano e ieri a Washington, insieme al segretario di stato Blinken, ha incontrato il ministro della difesa israeliano Gallant in visita negli Usa.

Hochstein entra di diritto in quella galleria di personaggi e organizzazioni descritta nell’ultimo importante libro dello storico Ilan Pappe – «Lobbyng for Zionism on both sides fo Atlantic» – che non crediamo avrà molte recensioni dalle nostre parti. Hochstein è colui che ha elaborato e dato corpo alle strategie Usa in Europa e Medio Oriente. È stato lui che fece saltare il South Stream, il gasdotto tra Russia-Turchia-Italia che doveva aggirare l’Ucraina, a lui è ricorso Biden per chiudere il North Stream 2, la pipeline tra la Russia e la Germania.

Una delle cause del conflitto con Mosca. Washington si gioca ora in Medio Oriente la carta Hochstein – che nel 2022 ha mediato l’accordo tra Libano e Israele sui confini marittimi – per evitare un’altra guerra tra gli Hezbollah e gli israeliani in un mix esplosivo con il massacro in corso a Gaza dove il premier Netanyahu non cerca la pace ma un’impossibile vittoria “totale”. Hochstein è un strana figura di mediatore che rivela le contraddizioni laceranti della politica estera americana, in bilico tra una diplomazia dai contorni ambigui e mosse destabilizzanti di portata devastante, oscillante tra la fedeltà agli interessi primari di Washington, quelli dello stato ebraico e delle lobby affaristiche e militari.

Questi sono i personaggi in campo che preoccupano almeno quanto la situazione che dovrebbero gestire.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre Hezbollah aveva innescato degli scontri lungo la frontiera meridionale del Libano in solidarietà con i palestinesi e per alleggerire la pressione sul movimento islamista. In realtà dopo la guerra dei 40 giorni del 2006 questo fronte, dove è presente la forza militare Onu della missione Unifil (un migliaio i soldati italiani), la tensione era rimasta alta ma senza potenziali escalation.

Negli ultimi mesi tutto è cambiato. Gli attacchi israeliani in Libano si sono fatti sempre più pesanti, con l’uccisione di 450 persone tra cui dozzine di civili. A sua volta Hezbollah ha compiuto azioni militari con droni sempre più potenti mentre Israele ha colpito in profondità e con omicidi mirati come quello che l’11 giugno ha fatto fuori il comandante di Hezbollah Taleb Sami Abdallah.

Il dato militarmente più interessante è che Hezbollah si è dimostrato in grado di abbattere i droni israeliani, ha lanciato missili contro i jet di Tel Aviv e ha persino compiuto un attacco simbolico contro un’unità dello scudo di difesa aerea israeliano, il famoso Iron Dome. Ma quale è l’obiettivo di Hezbollah? Secondo gli esperti libanesi il movimento intende mettere in mostra una capacità militare avanzata e di deterrenza senza però avviare un conflitto su larga scala, osteggiato dalla società libanese ma forse anche dall’alleato iraniano.

Gli israeliani sul fronte opposto non solo hanno dovuto procedere alla evacuazione di migliaia di persone dalla Galilea del nord ma si sono resi conto che Hezbollah è in grado di utilizzare tecnologie militari avanzate: una cosa cui Israele non era abituato a subire dai suoi nemici nella regione.

Proprio per questo Gallant è andato a Washington: per sondare la disponibilità degli Usa e dei loro alleati fornire quell’ombrello di sicurezza che avevano dato a Israele quando in aprile l’Iran ha attaccato – forse volutamente senza grandi risultati – lo Stato ebraico.

E qui è venuta la posizione del capo di stato maggiore dei comandi riuniti americani, Charles Brown , secondo il quale gli Usa non interverranno a fianco di Israele nel caso di apertura di un fronte di guerra contro Hezbollah, aggiungendo che «si vuole evitare una escalation anche con l’Iran». Se dobbiamo credergli per un volta le pressioni americane potrebbero avere un effetto e questa volta i confini li ha tracciati un generale non un politico, e forse non per caso.