«Un lavoro collettivo: fare la storia del manifesto. Un’esperienza politica, giornalistica e cooperativa (1969-1984)» è il convegno che si svolgerà presso l’Ecole française di Roma (piazza Navona, 62) oggi (dalle 10 alle 17). Dedicato alle vicende de il manifesto, organizzato da giovani ricercatori – Virgile Cirefice, Grégoire Le Quang (e Noemi Magerand, ndr) –, riunirà accademici italiani e francesi attorno ai primi anni di vita del giornale. La giornata, aperta al pubblico, si iscrive in un progetto più ampio che nasce dall’idea di studiare il giornale nella sua dimensione organizzativa e lavorativa: un aspetto rappresentativo della sua pluralità, in cui giornalismo e militanza si sovrappongono.

LA REDAZIONE del giornale diventa così specchio del progetto politico a cui hanno dato vita nel ‘69 Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luciana Castellina e Luigi Pintor. La campagna di interviste agli «attori» del manifesto, realizzata finora, ha consentito di compensare la scarsità degli archivi sull’argomento, permettendo di ricostruire l’organizzazione interna della redazione e di ricostituirne la memoria collettiva. Dall’incontro con i protagonisti, il manifesto appare come un luogo di democrazia partecipativa e di discussione collettiva: rappresentativa la riunione di redazione della mattina a cui tutti partecipavano e dove ognuno poteva dire la sua, dai capiredattori ai tecnici: una vera «palestra di idee», citando le parole di Aldo Garzia.

Sin dall’inizio, la redazione ha accolto giovani dalle fila del movimento studentesco e operaio, molti dei quali si avvicinavano al gruppo in qualità di militanti più che di aspiranti giornalisti. Lì però hanno trovato anche una scuola professionale, come ricorda Pietro De Gennaro, inizialmente entrato nel 1971 nel settore tecnico per occuparsi delle spedizioni, senza alcuna esperienza se non quella da militante: «Nell’83 sono riuscito a fare il praticantato giornalistico. Il manifesto offriva questa possibilità: molti giornalisti, anche importanti, provengono da lì».

Si costituisce così un gruppo intergenerazionale, con esperienze di vita e di politica diverse: un progetto quasi improvvisato, determinato dalla volontà di creare uno strumento di informazione e di azione politica capace di cambiare i rapporti di forza nella società.

Lucio Magri, Rossana Rossanda; Eliseo Milani e Luciana Castellina nella redazione del manifesto, 1972

COMINCIA ALLORA la ricerca di finanziamenti: sottoscrizioni e abbonamenti permettono di avviare l’impresa. Nella ricerca di un’autonomia politica e finanziaria, iniziano a breve anche i primi investimenti tecnologici: «Il manifesto fu subito, per miseria, anticipatore delle nuove tecnologie», sottolinea Luciana Castellina, e le dimensioni agili della redazione permisero al giornale di essere all’avanguardia. È stato il terzo giornale in Italia, dopo La Stampa e L’Avvenire, ad usare la teletrasmissione, permettendo alla redazione di Roma di mandare il quotidiano in stampa a Milano.
Filippo Maone ricorda il suo viaggio a Milano nel ’73 per acquistare i macchinari dalla Stampa, che sostituiva allora le sue vecchie teletrasmittenti: «Feci un patto con il diavolo: erano terrorizzati che si sapesse che La Stampa aveva avuto contatti con il manifesto. L’ingegnere Carità – Carità! – mi fece vedere un prototipo della Siemens, e me lo dette per due lire».

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OVVIAMENTE, come ogni impresa, l’organizzazione orizzontale e autogestita del manifesto portò limiti e tensioni all’interno della redazione. I conflitti che può conoscere qualsiasi luogo di lavoro si ritrovano anche nel giornale: si costituisce alla metà degli anni ‘70 il collettivo autonomo dei tecnici, con lo scopo di presentare alla direzione le rivendicazioni del proprio settore. Dalla rotazione delle mansioni, talvolta giudicate alienanti, alla critica dell’autoritarismo, esso mirava a promuovere una vita interna più egualitaria, nel lavoro così come negli strumenti politici necessari alla discussione comune.

In una lettera indirizzata alla redazione, il collettivo scrive: «Strumenti comuni, linguaggio comune, norme comuni non producono eguaglianza se applicate da persone diseguali tra loro. Per arrivare a una vera gestione collettiva del giornale i compagni del settore tecnico hanno bisogno di una crescita politica autonoma. Per dirigere bisogna saper dirigere, per discutere bisogna conoscere».

In questo aspetto il manifesto era veramente figlio del suo tempo, erede di una tradizione politica partitica – quella del Pci del dopoguerra – molto diversa dalle nuove forme di partecipazione e di linguaggio praticate dai giovani militanti del movimento, entrati come tecnici e giornalisti.

Quello della redazione di via Tomacelli è un incontro tra diversi modi di fare politica e tra due generazioni, specchio della sinistra di quegli anni, il quale contribuì a fare del manifesto un’esperienza originale nel panorama politico e giornalistico italiano.