Umberto Pasti teatralizza il suo giardino-museo a Tangeri
«Ormai per questi ficcanaso Tangeri, la vera Tangeri, quella di Diego, la mia, che per loro non è mai esistita, è diventata oggetto di studio. Mi sembra di aver appena ricevuto l’invito a un funerale, e un affronto intollerabile». A questa intemerata si lascia andare il narratore di Arabesco di Umberto Pasti (Bompiani «Narratori italiani», pp. 223, € 18,00), alter ego appena camuffato del suo autore, quando riceve la richiesta di una visita nella sua casa sulle alture che circondano la città: la visita di un accademico/mercante e della sua petulante amica, con obiettivo proprio quel Diego Mullor Heredia che della villa, chiamata Tebarek Allah («Che Allah ci protegga»), è stato parziale architetto, ma più ancora inquilino e adesso fantasma domestico d’indole molesta ma benevola. La terra, da vivo, Mullor l’aveva calpestata tra la fine dell’Ottocento e la metà del secolo scorso, su entrambi i lati dello stretto di Gibilterra, lasciandosi dietro disegni, caricature, progetti, passioni politiche: e un segreto dolore per non aver saputo riversare nelle linee tracciate con matite e chine i colori di quel Marocco che gli toglieva il fiato.
Al proprietario attuale dell’abitazione che fu una delle sue invenzioni, lo spirito di Mullor impone di raccontare: quasi come se la casa stessa, e il suo giardino, non fossero già di per sé un racconto. «Nell’Islam – scrive Pasti – il nome di Dio è Dio» e così ogni sua iscrizione non può limitarsi a dire: allo stesso modo, per un collezionista di piante e manufatti, la creazione di un luogo (un giardino, una casa) è una forma di scrittura del nome divino, un apparecchiare il luogo per la discesa di un dio o affinché colui che lo attraversa possa salire al cielo.
È forse sulla spinta di quest’idea che il protagonista del libro di Pasti sente pungere l’offesa portata dagli importuni visitatori: se la vera Tangeri, di cui Tabarek Allah è un concentrato e una trasfigurazione, viene musealizzata, vuol dire che non è più efficace come eteronimo divino, come spazio sacro. E il fatto che sia stata abbandonata dagli dèi è forse suggerito, già nelle primissime pagine del libro, da un’immagine crepuscolare del nume par excellence della città – un Paul Bowles ormai avanti con gli anni, che «qualcuno copriva con uno scialle» mentre lo scrittore russava tra le domande incessanti di un giornalista curioso solo del film di Bertolucci tratto dal suo Tè nel deserto.
Ma di che tipo di sacralità è imbuto la casa di Tabarek Allah, così come la città che vi giace ai piedi? Forse della sua forma più pura, che è lo stesso Bowles a definire nell’autobiografia Senza mai fermarsi, quando racconta il suo primo avvistamento del Nordafrica dalla nave, come «un legame segreto tra il mondo della natura e la coscienza dell’uomo». In fondo, la stessa relazione che Pasti si adopera a mantenere viva con la sua opera di collezionista, di creatore di giardini e di scrittore – attività che sfumano l’una nell’altra, e che lasciano traccia con gentile insistenza nei suoi libri: tra gli altri, la coppia Giardini e no (2010) e Animali e no (’16), corredati dalle illustrazioni di Pierre Le-Tan, e la seconda coppia Perduto in paradiso (’18) e Un giardino atlantico (’19), tutti editi da Bompiani.
Gli ultimi due accomunati dal racconto, anche per immagini, dell’impresa che Pasti ha compiuto a Rohuna, una zona collinare a sud di Tangeri, affacciata verso l’oceano, dove ha dato vita a un giardino che da paesaggio dell’anima è diventato meta di migliaia di viaggiatori, come il Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk a Istanbul. Pasti dice che lo sforzo che ci si deve sobbarcare per creare un giardino è erculeo, e tale dev’essere mantenere il legame tra natura e coscienza: per quanto diretto e viscerale, come lo intendeva Bowles, esso va riattivato, se non ricostruito, oppure fatto partorire socraticamente negli animi di chi è incline ad avvertirne la corrente magnetica – come dimostrano le splendide pagine in cui Pasti racconta la sua iniziazione di collezionista per opera di un antiquario del Cairo.
La definizione di Bowles di quella connessione «magica» ha nel libro una riformulazione ancora più efficace di quella del maestro e amico. Nell’epilogo, la voce del narratore dice di aver imparato nel tempo che «il giardino è un dramma»: questo non significa solo lo sforzo di costruzione e mantenimento del luogo, ma proprio la messa in scena teatrale del rapporto tra forma e informe – irrisolto, precario, imbrigliato nel tempo, mai congelato nell’istante. «Quando si osa, anche il giardino più piccolo e risicato, anche un davanzale diventa più profondo dell’oceano» continua Pasti, e viene in mente il Thicket with Self-Portrait di Graham Sutherland: un grande intrico sul punto di collassare nell’indeterminato o di sottomettersi alla geometria e alle strutture, con il pittore a fianco a cogliere la lezione inesauribile del suo mutamento.
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