Saud Titi, ufficiale nelle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese, e Mohammed Abu Daraa delle Brigate del Martiri di Al-Aqsa (Fatah), entrambi del campo profughi di Balata ed ex prigionieri politici, sono stati uccisi ieri dal fuoco dell’esercito israeliano non lontano dal villaggio di Deir al-Hatab. Assieme ad altri due palestinesi, Titi e Abu Daraa in precedenza avevano sparato in direzione dell’insediamento coloniale israeliano di Elon Moreh, a pochi chilometri da Nablus. Sono poi stati sorpresi da pattuglie dell’esercito che hanno fatto fuoco uccidendoli. Gli altri due sono riusciti a scappare, probabilmente feriti. Qualche ora prima reparti israeliani avevano lanciato un raid a Jenin: arrestate almeno cinque palestinesi tra cui Ahmed Turkman, figlio di Maher Turkman, ucciso l’anno scorso da forze israeliane dopo aver sparato a un bus militare nel nord della Cisgiordania.

Sono solo gli ultimi sviluppi di un conflitto in Cisgiordania che gli analisti palestinesi spiegano come la conseguenza dell’assenza totale di soluzioni politiche e dell’occupazione militare dei Territori che ogni giorno grava sulla vita di milioni di palestinesi. Il bilancio di sangue sale giorno dopo giorno. Sono un centinaio i palestinesi uccisi forze militari e coloni israeliani dall’inizio del 2023, 19 gli israeliani. E non è destinato a fermarsi. Si fanno insistenti le voci di un piano che stanno mettendo a punto i comandi militari israeliani di una operazione dell’esercito ad ampio raggio in Cisgiordania. Non delle proporzioni di “Muraglia di difesa” del 2002, che vive le forze corazzate israeliane rioccupare tutte le città autonome palestinesi – i morti furono centinaia – ma che potrebbe prevedere l’invasione per giorni della città vecchia di Nablus, di Jenin e del suo campo profughi, ossia delle principali roccaforti della militanza armata palestinese. I media locali ieri ipotizzavano tempi ravvicinati, già nelle prossime settimane. A chiederla è soprattutto la destra estrema che appare padrona del governo e di cui Netanyahu non può fare a meno se vuole realizzare la contestata riforma giudiziaria che, dicono tanti israeliani, dovrebbe aiutarlo a superare indenne il processo per corruzione che da oltre un anno lo vede sul banco degli imputati a Gerusalemme. Ieri il ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir di Potere ebraico ha accolto con rabbia la decisione del premier e del ministro della difesa Yoav Gallant di vietare, di fronte alle proteste palestinesi e della Giordania, ai nazionalisti religiosi israeliani di entrare sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme durante gli ultimi dieci giorni del mese di Ramadan. Per Ben Gvir questa decisione sarebbe un «cedimento al terrorismo».

È tornata ieri in Italia la salma di Alessandro Parini, l’italiano 35enne rimasto vittima venerdì scorso di quello che sembra essere stato un attentato a Tel Aviv. Ad attendere il feretro oltre ai familiari, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro degli esteri Antonio Tajani, l’ambasciatore d’Israele in Italia, Alon Bar e il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Oggi verrà effettuata l’autopsia. L’esame, disposto dalla Procura di Roma, dovrà chiarire se il giovane sia stato ucciso dall’impatto con l’auto, a bordo della quale il presunto attentatore, Yousef Abu Jaber, ucciso dalla polizia, si sarebbe lanciato contro le persone, sul lungomare. Servirà anche a escludere che Parini sia stato colpito da un proiettile sparato dalla polizia contro Abu Jaber. I funerali si terranno domani alle 15 nella basilica dei santi Pietro e Paolo.