Tsai Ming-liang, il cinema come spazio di meditazione
In mostra «Une quête», la personale del regista taiwanese al Centre Pompidou con il nuovo atto della serie «Walker», incentrata sul monaco Xuanzang
In mostra «Une quête», la personale del regista taiwanese al Centre Pompidou con il nuovo atto della serie «Walker», incentrata sul monaco Xuanzang
Per due decenni, tra il 1992, quando The Rebel of the Neon God viene presentato alla Berlinale e il 2013, quando esce il suo ultimo film «per il cinema», Stray Dogs, Tsai Ming-liang è stato il regista che con più tenacia e creatività ha dato seguito al lavoro dalla Nouvelle vague di Taiwan, di cui Tsai è un fratello minore d’anagrafe ma ineguagliato per la sensualità delle immagini, e per un tono drammatico, per una visione apocalittica a cui il tempo ha dato indubbiamente ragione. Nell’ultimo decennio, la sua produzione si è concentrata essenzialmente su opere concepite per essere proiettate in luoghi d’arte, gallerie, musei, festival. L’evento che il Centre Pompidou di Parigi gli ha dedicato, dal 25 novembre fino al 3 gennaio, getta un ponte tra questi due lati del lavoro di Tsai Ming-liang illuminando entrambi. Il titolo è Une quête.
«QUÊTE» è una parola francese di origine latina da cui deriva anche l’inglese quest, essa vuol dire al tempo stesso ricerca, avventura, missione. I romanzi di fantasy sono spesso incentrati su una quête che in genere si materializza in un oggetto o un premio. Se questa dimensione di conquista del mondo non è assente dall’esposizione che Tsai Ming-liang ha ideato con la complicità di Amélie Galli, è vero anche il contrario: la quête che il regista taïwanese propone ai visitatori del Pompidou è al tempo stesso un’avventura spirituale, una ricerca interna, un’esperienza meditativa.
Non a caso, per il manifesto dell’evento, è stata scelta un’immagine tratta dalla serie Walker (alla lettera: camminatore). Walker è un progetto aperto, ufficialmente cominciato nel 2012, che si espande negli anni e che ad oggi conta nove film di durata ineguale – l’ultimo, Where, è stato girato proprio per e al Centre Pompidou. Gli episodi che compongono Walker sono delle non-finzioni destinate alla proiezione nei musei e nei luoghi d’arte in cui l’attore Lee Kang-Sheng, incontrato per caso in una sala giochi e da trent’anni complice di Tsai in tante produzioni, veste i panni rosso fuoco d’un monaco buddista ispirato alla figura di un personaggio vissuto nel settimo secolo di nome Chen Xuanzang. Secondo il mito, il monaco sarebbe partito in un pellegrinaggio di vent’anni attraverso la Via della seta, avrebbe percorso tutta la Cina, dalla sua antica capitale fino all’India, per andare a cercare i testi originali della saggezza buddista. La storia di questa antica «quête», ha affermato Tsai Ming-liang, «mi ha cambiato la vita». Immerso nella modernità delle grandi metropoli, Lee Kang-Sheng cammina dal canto suo avanzando lentissimamente, con un movimento che sembra scandito da un’altra temporalità rispetto a quella del mondo in cui è immerso. È l’attore stesso ad aver inventato questa speciale camminata che ha immediatamente conquistato il regista e nella quale non è difficile scorgere da un lato una forma di opposizione, pacifica ma radicale, alla modernità e dall’altro una forma di meditazione.
LO SCRITTORE Emmanuel Carrère sembra fare eco alle immagini di Walker nel suo ultimo romanzo Yoga (P.O.L., 2020, tradotto in Italia presso Adelphi) quando ricorda: «Un giorno [il maestro Yang] ha eseguito davanti a noi una sequenza: tre o quattro movimenti che, rallentandoli all’estremo, io avrei compiuto in un minuto. Lui li ha eseguiti in venticinque minuti, durante i quali avrà respirato due volte, due ispirazioni e due espirazioni, facendo circolare il respiro con un’ampiezza e una lentezza infinita nel suo corpo che si muoveva come una medusa o un’anemone di mare». Come da tradizione, l’esposizione è accompagnata da una retrospettiva, da incontri e masterclass. Ma mai come in questo caso il percorso attraverso l’installazione è propedeutico ad una riscoperta del cinema dell’autore ospite. I vari episodi della serie sono proiettati all’infinito, invitando il visitatore a camminare con il camminatore e ad osservare a sua volta il proprio ritmo. Meditare vuol dire considerare le proprie sensazioni. È la proiezione di sé che si guarda allo specchio. L’installazione Quête è una sorta di meditazione cinematografica attraverso il cinema stesso o una versione espansa di esso. Nella meditazione si osserva il circolo dell’ispirazione e dell’espirazione. Tsai guarda alla propria respirazione cinematografica, come le immagini escono dal proiettore e si formano su un oggetto: l’acqua, la carta, degli specchi. Ecco che, proiettate su queste materie, le immagini di Walker fanno eco alla sensualità dei film di Tsai, alla pioggia di The Hole, alle forme de Il gusto dell’anguria… Si tratta quasi di una lezione di estetica, quasi di un’etica del vedere che Tsai propone al visitatore e che questi assorbe non alla maniera di un testo teorico ma come un’esperienza o un esercizio morale che prelude e prepara alla riscoperta dei film che questo regista ha girato tra l’inizio degli anni novanta e il 2013.
CON LA SVOLTA dell’ultimo decennio, Tsai ha abbandonato in maniera definitiva l’esigenza dell’arco narrativo classico, della storia e dell’intrigo dei film d’autore europei. Il film Days, presentato alla Berlinale nel 2020 e uscito nelle sale francesi in queste settimane, è un ritorno alla sala ma non un ritorno al passato, piuttosto è un esempio ulteriore di questa svolta. Si tratta di un film quasi privo di dialoghi e di una storia in senso stretto. È un cinema che, come il monaco di Walker, avanza nel mondo con un passo scandalosamente «fuori orario». È anche un cinema che mal si immagina su un piccolo schermo. Si tratta di uno dei paradossi della meditazione: da un lato è una pratica che invita a privilegiare l’introspezione sulla socialità. Dall’altro, vi si trova una forza diametralmente opposta che spinge ad interessarsi all’altro da sé. Così, il cinema meditativo di Tsai Ming-liang sembra per un verso girare le spalle ai gusti del pubblico ordinario, persino quello della cinefilia, dall’altro invita ad una pratica che mal si adatta con la visione domestica e chiede di praticare le sale, le esposizioni, gli incontri.
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