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Trieste, il giorno dell’insurrezione

Trieste, il giorno dell’insurrezioneTrieste, 3 maggio 1945

Memoria viva La difficile lotta di liberazione sul confine orientale. Un gappista triestino, un «giovane di 96 anni», ricorda i giorni complicati di una città subito divisa

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 aprile 2021

Livio ha superato da un bel po’ i 90 anni, ora ne ha 96, ma la sua memoria è forte come la sua voglia di raccontare e si considera adulto e ormai già vaccinato da gennaio scorso.. Era proprio giovane nel 1945 mentre a Trieste c’erano i tedeschi, era l’Adriatische Künstenland, e solo il 1 maggio ci fu la liberazione vera.

Ricorda bene quando ha deciso che doveva combattere: «Credo che la svolta definitiva l’ho fatta nel ’43. Ero malato di polmoni e mi hanno chiamato alla visita di leva all’Ospedale militare ma, non so per quale pasticcio, mi hanno portato nel sotterraneo. Un lungo corridoio in mezzo a due enormi cameroni chiusi da inferriate. Mi sono trovato tra uomini stracciati, seduti a terra o accovacciati contro il muro, spiritati, dolenti, a fissare il vuoto o stesi a occhi chiusi forse nell´inutile tentativo di prendere sonno. Lamenti, grida, singhiozzi. Due latrine negli angoli in fondo, sotto le prese d’aria che davano sul giardino. Puzza di escrementi, di sangue e di iodio, di cipolla e patate che erano state il cibo, unico, di quel giorno.

Erano soldati italiani tornati dalla Russia. Feriti, impazziti per colpa di quella guerra e quel ritorno a piedi nel ghiaccio. Pensavo al nostro esercito raccontato dalla propaganda, quello glorioso, di uomini forti, i nostri eroi… Ma si trattano così gli eroi? Il giorno dopo si accorsero dello sbaglio e fui portato due piani più sopra, in un bel letto con lenzuola candide e suore premurose che mi offrivano cioccolata calda. Pensavo a quei ragazzi nel sotterraneo e ho sentito montare tanta rabbia; ero testimone di un tradimento e i bugiardi assassini dovevano pagare. Una di quelle situazioni che poi ti restano come squarci nel cuore ma ti fanno capire da che parte devi stare».

Livio faceva la guardia in una galleria contraerea proprio sotto quello che era stato l’enorme parco di villa Modiano, quelli delle carte da gioco, ma che era diventata la residenza di Friedrich Rainer. Il suo contatto era un uomo un po’ più anziano, uno che aveva lavorato ai cantieri di Monfalcone ed era tra quelli che l’8 settembre, con centinaia di altri cantierini aveva raggiunto i partigiani. I partigiani della Valle del Vipacco, in maggioranza sloveni, avevano inquadrato tantissimi nelle formazioni combattenti ma non potevano accoglierli tutti, erano troppi, e molti erano stati rimandati indietro per rinforzare la resistenza in città.

«Eravamo un gruppetto, tutti molto giovani, e proprio il 25 aprile facemmo la riunione definitiva in vista dell’insurrezione programmata per il 1 maggio: dovevamo risalire lungo le bocche di aereazione della galleria, uscire nel parco e occupare la villa dei tedeschi. Poi mi ricordo un’altra cosa di quella sera: una ragazza che avevo visto spesso in galleria, mi è passata vicino, mi ha sussurrato “lo avevo capito che eri dei nostri” e mi ha infilato in tasca un berretto con la stessa rossa. Il 1 maggio, beh, risalendo dalla galleria verso l’uscita dentro il parco di Villa Modiano sentimmo i tedeschi che scappavano con un gran rombare di motori e trovammo solo un mucchio di inutili banconote che volavano di qua e di là. Fummo più fortunati in via Donadoni dove c’era una stazione radio dei tedeschi e lì, proprio io, scendendo nelle cantine ho trovato nascosti sei tedeschi che, mani in alto, mi seguirono fino al comando dell’esercito jugoslavo».

Liberata Trieste dai tedeschi, il caos continuò per un bel pezzo: assieme ai partigiani e all’esercito jugoslavo erano arrivati gli anglo-americani, comunque l’amministrazione della città era degli jugoslavi e si aspettava di sapere che fine avrebbe fatto la città.
«C’erano assemblee frequenti, anche nel teatro vicino a casa nostra e un fiume di gente con le bandiere bianche rosse e blu ci passava davanti chiedendo l’annessione alla Jugoslavia. La mia famiglia era di tradizione irredentista, si ritenevano tutti italianissimi anche se a mio padre il cognome era stato italianizzato dai fascisti e mia madre aveva un cognome croato. Si spenzolavano gridando fuori delle finestre dove avevano appeso quadri di Mazzini e Garibaldi. Boh, io ‘ste cose non le ho mai capite… Io stavo con gli indipendentisti, tra quelli che volevano il Territorio Libero, senza divisioni, senza inimicizie etniche, come era stata una volta Trieste, anche meglio che sotto l’Austria.

Non c’era spazio per questo, o stavi con l’Italia o con la Jugoslavia. Durò anni e ancora mi pare non sia finita. Peccato. Il mio cervello, il mio cuore, il mio voto, sono rimasti sempre dalla stessa parte, però quel mondo che volevo sono riuscito a intravederlo solo in quei mesi tra aprile e maggio».

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