Il dibattito sulla Ue si è molto incentrato sulla “moneta unica”, l’euro, e la Bce. Istituzioni create fra il 1999-2002, quando la nuova valuta è arrivata nelle mani dei cittadini; Il 2022 sarebbe stato quindi il compimento di un ventennio dell’eurozona. Meno ricordato è uno dei meccanismi che invece ha ben dieci anni di più.

Il 1 novembre 1993 entrava in vigore il Trattato di Maastricht, che trent’anni fa instaurava il Mercato Unico europeo. Al tema è dedicato da CEO (Corporate European Observatory), importante associazione basata a Bruxelles, un intero rapporto, 30 Years of EU Single Market, che ne analizza la storia ed i meccanismi, mostrando quanto incidono nella vita di ciascuno di noi.

“Mercato unico” significa creare una base omogenea e uniforme di regole commerciali, che permettano al singolo fornitore di una merce o di un servizio di poterla commercializzare in ogni Stato membro dell’Ue. Per molti anni il completamento del Mercato Unico è stato un orizzonte delle istituzioni comunitarie. Anche nel senso di ideale che non si raggiunge mai ed invoca sempre maggiori implementazioni. Soprattutto dagli anni Ottanta, in ossequio al rampante neoliberismo, la spinta a tale completamente si è tradotta sempre in maggiori gradi di liberalizzazione.

Le analisi di casi concreti del rapporto mostrano come per varie procedure gli input siano partiti dalle aziende stesse presso la Commissione, che ha fatto pressione sugli Stati membri fino alla extrema ratio, cioè la procedura di infrazione. Tutto ciò coperto da una sconcertante mancanza di trasparenza: non ci sono informazioni pubbliche sulle indagini in corso o sulle denunce che le hanno attivate.

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Le procedure sono tre: il meccanismo di denuncia della Commissione, la procedura di notifica in materia di regole tecniche (TRIS), e la procedura di notifica dei servizi. Tali meccanismi sono armi ampiamente impiegate dalle grandi aziende per colpire le norme legislative che contravvengono alla loro visione mercatista e ai loro interessi. Se il diritto della Ue è fortemente sbilanciato a favore di concorrenza e mercato, le palline enunciazioni che dovrebbero limitarne la portata sono nella pratica totalmente oltrepassate. Sappiamo che ogni anno vengono inoltrati alla Commissione circa 400 denunce da parte delle aziende, ma quante di esse determinino davvero un cambiamento legislativo è un segreto.

La situazione è peggiorata dalla tendenza da parte dell’esecitivo Ue a instaurare un dialogo informale col “reprobo”, che potrebbe modificare zitto zitto le norme incriminate; insomma tutto si sposta verso una sfera più informale meno controllabile pubblicamente e permeabile ai rapporti di forza. Per chi ne ha familiarità ritroverà la sostanza della Organizzazione Mondiale del Commercio: istituzioni burocratiche segnate in senso pro-mercato che costruiscono una architettura legale attraverso la quale agiscono, attivandole, le forze concrete del mercato, le imprese (ma solo quelle più grandi normalmente hanno la competenza di porsi come attori). E la prospettiva di una liberalizzazione senza fine: non c’è nessun punto x concettualmente definibile entro cui fermarsi o da raggiungere.

È un orizzonte sempre ulteriore. Così come nell’ambito dell’europeismo da establishment la “unione sempre più stretta” non si sa dove debba arrivare: conta è andare avanti, sempre, in una precisa direzione. Non tutte le ciambelle riescono col buco però: la Commissione nel 2017 ha cercato di far passare, sotto pressione di gruppi lobbistici, una delirante direttiva che avrebbe obbligato non solo gli Stati membri, ma pure gli enti locali a notificarle ogni tipo di normativa che avrebbe potuto comportare barriere commerciali per la fornitura transfrontaliera di servizi. In potenza tutto quello che riguarda i servizi avrebbe potuto entrare nella categoria. Soprattutto se essi fossero stati pubblici (la fornitura di acqua da un ente locale non preclude forse gli affari di un qualche privato che voglia gettarsi nel settore?).

Se queste storture non verranno sanate, per mantenere un minimo di democrazia e orientamento verso le classi subordinat, varrà il titolo di uno studio britannico del 2018: Why we had to leave.