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Tre ministri «sabotatori» del credito europeo del governo

Tre ministri «sabotatori» del credito europeo del governo

Destra ministeriale Siamo all’esibizionismo ideologico governativo per mostrare un’identità altrimenti oscurata dall’impianto neoliberista nella scia della cosiddetta agenda Draghi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 marzo 2023

Saldamente insediati nei rispettivi ministeri, tre sabotatori lavorano senza tregua a impedire che il governo italiano possa essere preso sul serio e garantirsi qualche credito in Europa. Trattandosi di assolute nullità aspirano a lasciare un proprio segno se non nella storia, almeno nella cronaca.

Il primo, compiaciuto ministro di polizia, esordisce fronteggiando con pugno di ferro una delle più gravi minacce che incombano oggi sul nostro pianeta: i rave musicali.

Ma le sue prestazioni più significative e reiterate consistono nel ricorso a un lessico che si vorrebbe intransigente, ma che suona all’orecchio dei più ringhioso e sprezzante fino alla ripugnanza. Cosicché precisazioni, smentite e chiacchiere riparatorie seguono puntualmente. Per il resto si adopera nel penoso tentativo di aggirare il diritto marittimo internazionale fingendo di rispettarlo e di ostacolare attraverso normative arbitrarie e strampalate le operazioni di soccorso in mare.

Il secondo, un mediocre burocrate, si propone di raddrizzare il decadimento morale della scuola italiana con ricette riesumate dai tempi di De Amicis in uno stile che oscilla tra l’accademia militare e il collegio religioso. Anche lui esagera ed è costretto a frequenti imbarazzate precisazioni. In realtà si limita ad addobbare con una retorica ultrareazionaria la pluridecennale perversione dei ministri dell’istruzione pubblica di voler adeguare scuola e università alla «domanda delle imprese» e al mercato del lavoro. Una chimera vanamente inseguita che ha sempre rovesciato ogni logica di innovazione e banalizzato i contenuti culturali per tradursi, alla fine, in grette misure di risparmio. Sempre molti passi indietro rispetto alla vita reale della società e degli agenti economici.

Più ottuso e arrogante dei suoi predecessori «progressisti» il ministro un «merito» effettivamente lo ha: quello di aver determinato una generale mobilitazione del mondo della scuola contro la sua ideologia e le sue miserevoli conseguenze pratiche.

Il terzo, un solerte funzionario giornalistico, si è assunto nientemeno che il compito di sbaragliare l’«egemonia culturale della sinistra», probabilmente quella seguita alla rivoluzione francese e che si spinge fino al radicalismo filosofico del Pd. Compito al quale attende sfoderando formidabili scempiaggini sulle quali non mancano però di intervenire illustri studiosi, storici, filologi, italianisti, editorialisti e filosofi che non hanno di meglio da fare. E, c’è da scommetterlo, affidando incarichi ad altrettante nullità ansiose di lasciare traccia del loro passaggio.

I tre sabotatori, dei quali solo il primo è veramente preoccupante per il credito del governo, sono in realtà la spia dell’esibizionismo ideologico cui quest’ultimo è costretto per mostrare un’identità altrimenti oscurata dall’impianto neoliberista e rigorista di scelte politiche che si inseriscono nella scia della cosiddetta agenda Draghi.

Che non è mai stata un’agenda, ma una variante congiunturale, legata a circostanze eccezionali, del catechismo finanziario. Ora la politica della Bce e l’orgia trimalcionica delle banche, la speculazione che prospera in tempo di guerra e la finzione della concorrenza «leale» tra stati indebitati e stati creditori, lascia ben pochi margini di compensazione se si intendono preservare da ogni scalfittura fiscale gerarchie sociali e grandi patrimoni. Le risorse scarseggiano perfino per quel «capitalismo caritatevole» che è l’habitat preferito di tutte le destre. Il governo italiano ha già il suo bel daffare nel tentare di conciliare gli interessi corporativi che gli garantiscono consenso con le regole della finanza neoliberale che glielo sottraggono.

La vicenda dei balneari, dove concorrenza liberale e privilegi feudali si fronteggiano sulle spoglie di un bene comune sottratto da decenni, per pochi denari e scambi politici alla libera fruizione della comunità, illustra pienamente questo dilemma.

Tuttavia la sovraesposizione ideologica, involgarita dalla competizione tra le forze di governo, non è priva di controindicazioni. Sul piano interno suscita più reazioni negative che entusiasmi. Si veda il caso della scuola, ma non solo. Sul piano europeo il problema è ancora più serio.

Quanto più a Roma sventolano le bandiere della reazione, tanto più crescono in Europa le preoccupazioni per il rafforzamento di quel blocco nazionalista dell’est, che va configurandosi come corrente ultra atlantica e che fa del rapporto con gli Usa una leva contro il nucleo storico dell’Unione, non ritenendosi più in dovere di rispettare il galateo democratico di Bruxelles. Parigi alle prese con il partito di Le Pen, Madrid con l’entrata in gioco di Vox, Berlino, anche se in misura minore, con la presenza consolidata di Afd, non possono certo rimanere indifferenti agli strepiti delle sirene ideologiche romane.

Tentare di cogliere l’occasione della guerra per modificare radicalmente gli equilibri europei, buttandosi nettamente dalla parte delle «democrazie illiberali», è tuttavia un gioco estremamente azzardato, una grave sottovalutazione del peso di cui Parigi e Berlino ancora dispongono. Finora il governo italiano ha preferito mantenersi sul filo dell’ambiguità, sempre che i sabotatori non decidano di strafare.

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