Tracce visibili dell’inespresso, nei puntini di sospensione
Alias Domenica

Tracce visibili dell’inespresso, nei puntini di sospensione

Il respiro della prosa/8 Banditi dai manuali di stile come via di fuga del discorso, i puntini di sospensione incontrarono l’abiura di Adorno, che vi leggeva una chiara manovra di diversione estetica
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 7 agosto 2022

Titubanza, reticenza, imbarazzo, vaghezza, omissione, censura, mimesi del parlato, volontà allusiva o segnale di silenzio: lo spettro espressivo dei tre punti di sospensione è sfumato. Altrettanto ampio e controverso, spesso improprio, il loro utilizzo, dalla corrispondenza intimista ai diari segreti fino al romanticume da tastiera – e allora i puntini non sono più tre ma legione – attraverso i languori e le sdolcinatezze di molta letteratura low-cost, dove i travasi del sentimento, lontani mille miglia da eleganza e semplicità, passano per un diluvio di punti sospensivi preconfezionati.

Banditi dai manuali di stile come asylum ignorantiae, via di fuga del discorso, resa del pensiero, opaca evocazione di atmosfere, volteggio di superficie, fino al verdetto senza appello di Adorno che – in Interpunzione, saggio del 1956 dove a ogni segno è attribuito un valore fisiognomico – vede nel loro impiego una chiara manovra di diversione estetica, uno smottamento impressionistico e suggestivo. In una parola, d’intesa con la propria critica della cultura, una concessione all’arte commerciale.

Lasciare aperti e inconclusi i pensieri, attraverso la sospensione, evocare miraggi di significato e suggerire catene associative potenzialmente infinite significa, per Adorno, pizzicare le corde della cultura di massa, nel suo carattere mercificato e ripetibile. Per questa via, anestetizzare la coscienza, spegnere la capacità critica, indulgere a un principio di piacere. L’utilizzatore seriale dei punti sospensivi è per Adorno, con termine a prestito dallo yiddish, uno shmok, un poetastro naïf o uno scribacchino male in arnese quando va bene; se va male, un impostore. Di sicuro un dilettante.

Heidegger e Derrida
Antagonisti della precisione e dell’esattezza, i tre punti sono per Adorno quanto di più distante da un discorso, filosofico ma anche letterario, che aspiri alla chiarezza e tolga la possibilità dell’equivoco. Eppure Essere e tempo di Heidegger inizia con i tre punti, e così pure le Memorie di cieco di Derrida, che li rilancia anche chiudendo la sezione della Grammatologia dedicata all’origine. Per non parlare della letteratura, che li utilizza per riprodurre andamenti linguistici sussultori o spezzati, per preludere a una svolta sospendendo l’atmosfera, per ammiccare su sensi doppi o plurimi, per lasciare a mezz’aria un episodio, per impedire ai sentimenti di erompere sguaiatamente. Gli esempi si sprecano, dall’uso, discreto e pudico, di abbreviare i cognomi con i punti sospensivi in Kleist, a Effi Briest, romanzo d’adulterio di Theodor Fontane, dove le ultime parole del maggiore Crampas – passato a fil di spada, secondo le leggi del codice d’onore, dal barone von Innstetten – sono strozzate in un mutilo, per sempre sospeso «Volete…» fino ai Buddenbrook, in cui, metaforicamente e concretamente, i punti fermi diventano punti di sospensione nel balbettio esitante di Hanno che si giustifica maldestramente con il padre per avere tracciato due righe nette sotto il proprio nome nell’albero genealogico rappresentando, in parole mozze separate dai puntini, una stabilità che si disfa.

O, più di recente, in «Jauregg», racconto breve di Thomas Bernhard dove i punti si infittiscono quanto più avanza il dissesto psichico del protagonista, quasi un codice Morse della disperazione.
Medaglione di una società divisa tra pulsioni e strozzature oltre che esempio conclamato di sospensione omissiva, intesa a velare parole che, se dette apertamente, risulterebbero in mancanza di gusto, è il Girotondo di Arthur Schnitzler, ciclo di dieci dialoghi drammatici, forse la sua opera più discussa per la scabrosità delle scene e per l’azzardo della tecnica, scritta tra il 1896 e l’anno seguente, pubblicata in prima edizione nel 1903 ma rappresentata solo nel 1921, con la guerra alle spalle e al riparo dalla censura imperiale. Le poche repliche suscitano proteste davanti al teatro e in sala, interrogazioni parlamentari mosse da sdegno cattolico e da un’evidente coloritura di nazionalismo antisemita contro uno spettacolo ben presto etichettato come «pièce da bordello», in un polverone che conduce Schnitzler difilato a processo per pornografia.

L’intreccio è schematico e tutto fuorché intricato, senza una vera trama, quasi un’infilata di tableaux vivants con l’aggiunta delle parole e di qualche movimento. Nella Vienna intorno al 1900, dieci personaggi, diversi per rango e per estrazione, mai chiamati per nome ma esemplari della società viennese fin de siècle, si incontrano in altrettanti quadri dove, due alla volta, dialogano fino all’immancabile amplesso finale, che avviene fuori scena con un breve intervallo a luci spente, per poi riprendere a conversare post coitum. Per proprietà transitiva, seguendo una grammatica dell’incontro erotico che fa dell’opera un vero e proprio experimentum amoris, uno dei due personaggi, di volta in volta protagonisti, ritorna nella sequenza successiva e quando il conte, ultimo a entrare in scena, si congiunge alla prostituta del primo quadro, il cerchio si chiude. O meglio, va da qui all’infinito, come un carillon che, a piacimento, può essere caricato sempre e di nuovo o come un meccanismo che gira eternamente su di sé tornando ogni volta alla casella di partenza.

In ogni tassello di questa ridda amorosa il culmine erotico avviene fuori dalla parola. Al ridursi della distanza tra i personaggi, in una prossemica sempre più stretta dove la pulsione è la legge trasversale che accomuna il soldato al conte e la cameriera all’attrice, la sintassi si rastrema, il dialogo si disarticola lasciando il posto ai punti di sospensione, che nella versione manoscritta dell’opera sono tre ma anche quattro o più, sparsi a larghe mani quando la parola retrocede al prevalere del linguaggio corporeo.
D’accordo con le leggi della psicoanalisi, che proprio in quegli anni, sotto lo stesso cielo viennese, Freud va sistematizzando, i punti sospensivi diventano, in questa pièce ma anche in altre opere di Schnitzler o altrove nella letteratura tedesca di fine Ottocento e del secolo entrante, segno dell’inconscio che affiora, espressione, negli spazi lasciati vuoti dalle parole, di un eros oscillante tra la passione e il gioco raffinato, tra il capriccio e l’esaltazione morbosa, ma sempre in direzione contraria alle convenzioni, sempre autonomo dalla gabbia linguistica.

Caroselli erotici
È così che nella struttura a catena del Girotondo, i punti perforano i dialoghi delle coppie, soprattutto se a tema amoroso, e, lungi dal segnalare omissioni testuali, sono la traccia visibile dell’inespresso, mentre le conversazioni che i protagonisti – più marionette che personaggi a tutto tondo – intessono, quasi una pantomima con schegge di dialogo, non sono che grottesche preparazioni dell’atto sessuale, dentro un carosello erotico a senso unico. Una danza dell’accoppiamento che tenta di dissimulare gli intenti e contraddire la volontà, conclamando la doppia morale e sancendo, sulla scia di Nietzsche, l’equivalenza di parola e menzogna.

«E adesso… addio…», dice la signorina nel quarto quadro prendendo congedo dal suo giovane amico mentre, in simultanea, si fa togliere la mantella di merletto, per poi aggiungere in tono laconico e quasi perentorio, mentre ancora fa mostra di andare: «La metta accanto al cappello».

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