Alias Domenica

Toti, set calcinato e redenzione totale

Toti, set calcinato e redenzione totaleGianni Toti, "… E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco", 1974, backstage

"… E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco", cinquant'anni fa Nel 1974, sotto l’egida di Pasolini, Gianni Toti filmò la storia di San Paolo, tradotta dentro il conflitto dei fedayn. Un’opera poetica fitta di citazioni, segni diacritici, effetti metalinguistici

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 28 gennaio 2024
Gianni Toti, “… E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco”, 1974, dettaglio dello storyboard

Può essere considerato un hapax il lungometraggio … E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco, l’unico girato da Gianni Toti (1924-2007), un autore che detestava la parola sperimentalismo in quanto l’aveva sempre praticato con la naturalezza di un’attitudine per lui sul serio ontologica. Quante facce non aveva rivelato, infatti, il suo prisma inventivo: giornalista all’Unità, «Vie Nuove» e al periodico «Lavoro» della CGIL, autore dello studio pionieristico Il tempo libero (1961), memore di Gramsci e dei Francofortesi, romanziere di estri ribollenti (da L’altra fame, 1970, a Il padrone assoluto, ’77) e però innanzitutto un poeta, firmatario di una decina di raccolte (da Che c’è di nuovo, 1962, al terminale I penultimi madrigali, 2004), nonché un antesignano già negli anni ottanta della videopoesia che lui, mediando fra cinema e arte elettronica, chiamava senz’altro «poetronica», pionieristico calembour, uno dei suoi mille, che ne aveva fatto l’ospite elettivo dei seminari di Montbéliard-Belfort. (E chiunque decida di inoltrarsi nella galassia-Toti non può fare a meno del volume collettaneo Gianni Toti o della poetronica – ETS 2012 –, a cura di Sandra Lischi e Silvia Moretti, due studiose benemerite e decisive nella tutela dell’ingente Biblioteca totiana, oggi ospitata dalla «Associazione Gottifredo» di Alatri).
Quanto a Shaul, di cui ricorre il cinquantenario, Toti ne aveva parlato più volte con Pier Paolo Pasolini incontrandolo nella redazione di «Vie Nuove» o all’ANAC (Associazione nazionale autori cinematografici), di cui si ritrovava segretario senza avere ancora girato un lungometraggio. Pasolini, che ancora nel ’74 spera di girare il suo San Paolo (poi Einaudi ’77 e Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Mondadori 2001), guarda all’Apostolo dei Gentili come a una meteorite teologico-politica caduta nel mondo ridotto a supermercato, trasferendolo nell’età contemporanea (fra Parigi, Roma, New York: del resto il progetto gli è nato dopo il viaggio negli Stati Uniti) e facendone un caso di assoluta, estremistica alterità rispetto all’esistente.
Toti, che ha appena realizzato il bellissimo cortometraggio dal titolo Lenin vivo (1970), ne fa viceversa un mediatore/organizzatore, quasi un leninista ante litteram e insomma colui che si dà il compito di essere il Messia di un Messia. Così Toti ne parlava in un’intervista rilasciata a chi sta scrivendo (Doppio sguardo sul Futuremoto, il manifesto, 25 luglio 2004): «Fu proprio Pasolini che mi convinse a girare … E di Shaùl … Così sono andato in Siria a girare la storia di san Paolo, lo zelota, traducendola dentro il conflitto dei fedayn che venivano massacrati ogni giorno. I fedayn io li sentivo come degli zeloti contemporanei».
Girato nell’imminenza della guerra di Yom Kippur, il film è impaginato come un’opera poetica fitta di citazioni, rimandi, segni diacritici, effetti metalinguistici, ed è scandito da un montaggio per blocchi asintattici ma tuttavia adiacenti secondo un ordine analogico. Il set è la Siria del retaggio greco-romano, onusta di maestose rovine sotto una luce piatta e dilagante, indicibile, cui fa eco per allusione la musica etnica reinventata da Vittorio Gelmetti. Gli attori (non professionisti per lo più, a parte il protagonista George Wilson e il cameo di un giovanissimo Alessandro Haber) propongono una postura frontale e più spesso ieratica che può evocare lo stile di Straub-Huillèt ma anche, nei primi piani muti e insistiti come nella forza degli occhi, l’inquadratura tipica di Pasolini se infatti, nella stessa intervista del 2004, Toti aggiungeva: «… io gli dicevo semplicemente vedi gli occhi … metti la macchina da presa davanti agli occhi …» (Riguardo al suo cinema di poesia è sempre utile l’Omaggio a Gianni Toti nel catalogo della 47° Mostra del Nuovo Cinema, a cura di Mazzino Montinari, AFIC 2007, ma utile è anche la recensione di Pietro Bonfiglioli, che parla di «linguaggio ermeneutico, per figure», in Scritti per l’arte e per il cinema, a cura di Vittorio Boarini, Cineteca Bologna 2016).
Le Lettere di san Paolo e gli Atti degli Apostoli danno la materia prima all’ambientazione e ai dialoghi. Al centro c’è un dissidio che Toti legge alla stregua di una controversia dialettica il cui esito è la metànoia che, per l’ex esattore collaborazionista dei romani, non è tanto un cambiamento quanto una totale mutazione del pensiero e del suo stesso essere. L’emblematica Damasco diviene perciò il crocevia dove gli zeloti (detentori dell’identità giudaica e sicarii, portatori del pugnale vindice) si trovano a combattere sia gli occupanti romani, fino alla resa suicida a Masada (sapientemente allusa in una delle sequenze più icastiche del film), sia gli eretici cristiani ormai persi, ai loro occhi, nel mondo «in-circonciso».
Agli zeloti estremisti l’apostolo oppone la parola d’ordine secondo cui «il prepuzio è niente, l’uomo trasformato è tutto», perché il san Paolo di Toti non rinnega ma interpreta, media e ragiona secondo una prospettiva necessariamente metastorica. Il mondo pagano è nel suo mesto irrimediabile tramonto (e colma di malinconia è nel film la rapida comparsa di Flavio Giuseppe) proprio nel momento in cui la resistenza degli zeloti (e leggi in filigrana i fedayn dell’OLP anticolonialista) vira sul cristianesimo passando dalla lotta contro la dittatura dell’Impero a quella contro il Messia mendace. Per parte sua, Shaul è colui che riconosce una patria sola, l’umanità («il servo che soffre è uomo, tutti gli uomini»), e come tale intende riscattarla vincendo la dittatura della morte di cui Cristo è stato il fatale pharmakòs, l’agnello sacrificale.
In altri termini, e pronunciati a chiare lettere nel film, per san Paolo il Cristo è il primo uomo che non sia morto di una morte assoluta e, pertanto, egli è il primo uomo ad aver vinto la morte e la sua dittatura: «Il secondo Adamo – si chiede a un certo punto – non è per noi la morte della morte?». In realtà la metànoia, per l’ateo e marxista Gianni Toti, è cristianamente una «figura» e perciò l’allegoria del comunismo: «Sono uno e sono tutto per tutti», dice per due volte nel film. La sua forza è la violenza stessa, così trascinante da sembrare impulsiva, eppure è il frutto di una scelta che si ripropone a ogni passaggio della sua predicazione cosmopolita. E «leninista» non è una ideologia ma è semmai il riproporsi della scelta medesima che sempre è uguale e sempre è diversa tra il bene e il male, tra l’umano e il diabolico, laddove il diavolo corrisponde esattamente a ciò che, per etimologia, duplica e disgrega. Shaùl rigetta questa antitesi priva di dialettica e, nella sua calcinata solitudine, affida l’evento della resurrezione della carne al vasto orizzonte della «in-circonsisione», umano tout court, cui guardano tutte quante le vie che si dipartono da Damasco.
Al fedayn che va a Roma ed entra nella sua cella per ucciderlo, così come all’impazienza dei moderni rivoluzionari, Shaùl oppone la «figura» di un progetto di integrale redenzione. Nell’ultima sequenza, girata au ralenti, i guerriglieri sorgono all’improvviso scalpitando nella luce del deserto: costoro sono armati di mitra ma sono ambiguamente (ancora una volta, dialetticamente?) celati sotto le spoglie di silenziosi armenti.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento