Alias Domenica

Toni sgradevoli e carnalità tra Carducci e d’Annunzio

Toni sgradevoli e carnalità tra Carducci e d’AnnunzioDomenico Morelli, Le tentazioni di Sant’Antonio, part., 1878, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

Poesia verista Olindo Guerrini insolente e sboccato; Fontana; l’aretino mangiapreti Tanganelli; il torinese Corradino; il siciliano Onufrio, e poi arriva il Vate... Sedici profili «veristi» nell’antologia Letto, latrina e cantina a cura di Giuseppe Iannaccone per Interlinea

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 giugno 2022

Fu nel 1948, introducendo la Storia delI’Impressionismo di John Rewald, che Roberto Longhi pronunciò per l’ultima volta il celeberrimo Buonanotte, signor Fattori!, il quale corrispondeva alla pubblica esecuzione e in blocco dell’Ottocento italiano, specie quello tardo dei cosiddetti Macchiaioli. Nessuno potrebbe ripetere una frase del genere riguardo alla coeva poesia perché, a parte il caso di Giosue Carducci, né gli Scapigliati né gli stessi imitatori del grande maremmano potevano vantare, dopo tutto, i talenti di un Silvestro Lega o di Fontanesi e Segantini: la frattura e il relativo cambio di marcia si avranno più avanti tra l’uscita di Myricae e Alcyone, qualcuno disse addirittura nel 1909 quando uscì Revolverate di Gian Pietro Lucini.
Che la poesia italiana a cavallo dell’Unità presentasse appunto un affollamento di figure scompagnate, eclettiche e volentieri contraddittorie (tra classicisti di ritorno, bardi tardoromantici e devoti alla vita di Bohème) è oggi riprova ulteriore la pubblicazione di un’ottima antologia, a cura di Giuseppe Iannaccone, Letto, latrina e cantina La poesia verista in Italia (Interlinea «Lyra», pp. 273, € 18,00), che seleziona sedici fisionomie, ognuna accompagnata da una puntuale introduzione storico-filologica, secondo un periodizzamento che muove dall’anno 1877 quando l’editore Zanichelli stampa in caratteri elzeviri sia le Odi barbare sia i Postuma di Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti) che del maestro è tanto un plateale epigono quanto un affettuoso e disinvolto parodista. Qui bisogna tuttavia dare subito conto del sottotitolo della antologia perché se ovviamente è esistita in Italia un’epica verista e cioè una prosa di alta levatura (non solo agli apici di Verga e De Roberto ma ad esempio in uno standard quale, di Capuana, Il marchese di Roccaverdina), non si è mai data invece una parallela poesia «verista» trattandosi quasi di un ossimoro, perché se il verismo corrisponde a oggettività e impersonalità, al trattamento persino scientifico della tranche de vie, per ciò stesso rende impossibile una pronuncia «lirica» e dedotta dalla prima persona o comunque focalizzata sullo scrivente. In effetti Iannaccone utilizza l’accezione più generica del «verismo» che per i contemporanei poteva essere sinonimo di toni sgradevoli, di tematiche scandalose e provocatorie, di aperta oscenità come ebbe a rilevare a suo tempo Benedetto Croce che, ci ricorda il curatore, parlò in proposito di «una ribellione contro ogni residuo di misticismo e di ascetismo» aggiungendo che la finalità comune consisteva «nello stracciare i veli che celano le piaghe sociali, iniziare la ribellione contro le tirannie di ogni sorta, contro ogni sorta d’ingiustizia».
Perciò nelle rime del poeta per antonomasia insolente e sboccato, Stecchetti, è già inclusa la voce, o magna pars, degli altri antologizzati pur in presenza di alcune figure (come Ferdinando Fontana, Ulisse Tanganelli, Girolamo Ragusa Moleti, Corrado Corradino) che Iannaccone ha il merito di censire nel dettaglio tra blasfemie, grevi carnalità, insulti indirizzati al chiaro di luna laddove, semmai, è discutibile la scelta di limitare ovvero di espungere la tematica esplicitamente politica che, talora con esiti spiazzanti, prevale sugli argomenti ordinari e postribolari: Fontana (1850-1919), per esempio, ondeggia talmente che Croce lo accusa di giornalismo verseggiato mentre Felice Cavallotti lo definisce un suicida in aspettativa; per parte sua il torinese Corrado Corradino (1852-1923), democratico educato alla scuola del Graf, diviene nazionalista e in quanto tale compone in pieno 1915 l’Inno della Juventus («La gioventù di cui portiamo il nome / ci pulsa appien nei muscoli e nel cuor, / sappiam goder ma pur sappiamo come / si debba oprar sui campi dell’onor»… decisamente un inno all’antica).
Mancando nella antologia una tavola bibliografica, chi voglia appurare l’anticlericalismo e l’estro politicamente ondivago di certi poeti va rinviato ad almeno due antologie purtroppo da tempo indisponibili, Dio borghese. Poesia sociale in Italia 1877-1900, a cura di Adolfo Zavaroni (Mazzotta 1978) e specialmente Poeti della rivolta (Rizzoli 1978) a cura di un grande studioso del movimento operaio, Pier Carlo Masini.
È probabile che tanta retorica del satanismo, dell’anticlericalismo e di un imprecisabile socialismo faccia velo al vero limite che innanzitutto è d’ordine linguistico-stilistico. Se la grande prosa naturalista e verista realizza il suo sublime d’en bas (si pensi a Verga e alla soluzione del discorso indiretto libero), la poesia italiana corrispettiva non va mai oltre la parodia di una illustre tradizione secolare. Infatti apri Letto, latrina e cantina e ti trovi sempre e fatalmente al cospetto di un lessico di ascendenza letteraria anche quando è triviale, di metri chiusi (per lo più endecasillabi, settenari) e di stampi strofici classicissimi (la strofe saffica, addirittura), perciò vorrà dire qualcosa la carenza di versi liberi, di poème en prose così come il fatto che Stecchetti e i suoi non si spingano mai oltre le marachelle di Cecco Angiolieri, di Berni e Aretino o la simmetrica, comunque goliardica, necrofilia di Emilio Praga o Arrigo Boito e il pittore che meglio li potrebbe rappresentare, patetico e insieme scenografico, un eclettico se mai ce ne furono, sarebbe senz’altro Domenico Morelli. A titolo di esempio ecco come evolve l’esercizio necrofilo, Anfiteatro anatomico, del siciliano Enrico Onufrio (1858-1885): «E ruppe il petto alla fanciulla, e, celere, / dalle squarciate carni discoperse / qualcosa di sanguigno, ed ai discepoli / dopo l’offerse», oppure il fragoroso aprosdoketon che suggella No: tu non sei la vergine ideata, sonetto giocoso in vituperio di una donna troppo abbondante, dell’aretino e repubblicano mangiapreti Ulisse Tanganelli (1853-1931): «Tu mi sfondi perdìo letto e solaio: / io non ti posso amar, sei troppo grassa! … / e ti giro senz’altro al macellaio». D’altronde erano eclettismi e sbandate da cui per primo, pur maggiore di tutti gli altri, non andò esente neanche Carducci sia dal punto di vista ideologico (l’ode alcaica Alla Regina d’Italia, gravida di ardori monarchici, è pubblicata nel 1878 e di fatto è la palinodia di Versaglia, 1871, i cui accenti giacobini salutavano la Comune) sia da quello linguistico-stilistico, a meno di non valutare Rime e ritmi (’99) come un avanzamento rispetto al ciclo delle Barbare.
In ogni caso, chi presto metterà d’accordo tutto e tutti è Gabriele d’Annunzio che l’antologista opportunamente colloca all’epilogo della sua antologia. Qui si tratta del neoliceale al «Cicognini» che sulla via di Prato sosta da Zanichelli al Pavaglione e fa provviste di raccolte elzeviriane, cui seguono, dice Iannaccone, i «prelievi rapaci» che d’ora in avanti saranno la sua regola. Chi firma Primo vere mostra già le credenziali del futuro liquidatore che, armato di machete, entra nel sottobosco poetico dove sopravvivono intrecciati tutti gli -ismi del tardo XIX secolo (Dal simbolismo al déco si intitolerà la benemerita antologia di Glauco Viazzi da Einaudi nel 1981) per trasformarne ipso facto i cascami, i detriti e i fiori putrefatti nell’oro come nel similoro di una lunga stagione poetica. La poesia italiana dovrà attendere non meno di mezzo secolo da quell’esordio per pronunciare il suo fatidico Buonanotte, signor d’Annunzio!

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