Non è un caso se, inserite in una trama narrativa, le descrizioni del contesto aziendale contemporaneo, che esibiscono caratteri di uniformità e replicabilità, mettendo in scena strutture dall’aspetto standardizzato, anonimo, riproducibile ovunque, intendano il più delle volte rovesciare ironicamente i loro presupposti. Ma spesso, il racconto del lavoro nel capitalismo avanzato, anche quando assume tinte distopiche, serba dei residui realistici del mondo descritto che filtrati nell’impronta autoriale si trasmettono, magari inavvertitamente, all’attenzione del lettore.

Capitalismo «famelico»
Nell’ultimo romanzo dello scrittore olandese Tom Hofland, Il cannibale (traduzione di Laura Pignatti, Carbonio, pp. 208, € 18,00), il virtuosistico calembour di satira sociale e violenza in stile b-movie allestito dall’autore è ambientato durante una ristrutturazione aziendale, e sembra affidare a un registro cruento la rappresentazione del capitalismo «selvaggio», «famelico», «parassitario»; ma a ben guardare, è sul piano della persuasione, tra automatismi e vezzi del discorrere tra i personaggi, che si consumano i danni peggiori.

Tutto si svolge nel cuore della Veluwe, la più grande riserva naturale dei Paesi Bassi: Lute, il protagonista, lavora come addetto alle vendite presso una società che produce rivestimenti per capsule, ovvero una merce comicamente inutile. Quando l’azienda sta per essere incorporata da un colosso concorrente, a Lute viene imposto di effettuare dei tagli nel personale, prospettiva tanto astratta nella sua fattibilità – anche nel mondo postulato da Hofland esiste un quadro giuridico che tutela dai licenziamenti illegittimi – quanto resa tangibile dall’insistenza dei vertici.

Gli scogli legislativi, i dilemmi etici, il semplice stress si rivelano insormontabili per il protagonista il quale, non essendo in grado di compiere azioni lesive, si ritrova nelle mani di due «tagliatori di teste» che lo hanno adescato per compiere il lavoro al posto suo: da qui, una escalation di nefandezze che coinvolgerà l’intero personale dell’azienda. Nella resa dettagliata di queste scene, l’autore trasfigura gradualmente i connotati dei suoi personaggi, rendendo la loro voce improvvisamente sentenziosa, persino oracolare.

Eppure, anche negli scambi più esasperati, a vincere saranno le semplici armi della persuasione, il che rende evidente come Hofland ritenga ormai stanca la pretesa di insistere su una rappresentazione mostrificata del capitalismo avanzato, per affidarsi invece all’arte di cogliere quei più minuti meccanismi retorici che subliminalmente preparano la realizzazione del consenso.

Da un punto di vista meramente letterario, Il cannibale è un romanzo più sottile di quanto possa sembrare a un primo sguardo: il gradevole sviluppo in forma di thriller viene declinato in una quantità di episodi minori e bizzarri, che portano a rivelare la vampiresca immortalità della coppia dei sicari-cannibali, che hanno preso in mano la ristrutturazione dell’azienda, e le cui scorribande restano in un certo senso elementi di contorno. Il potere che esercitano, il quid diabolico del loro agire è tutto, in realtà, nella loro conversazione, tanto da indurre una sorta di incantesimo ai danni dell’interlocutore, che entra in gioco ben prima di arrivare allo scontro, e facendo a meno di effetti speciali. Sia Lute che i suoi superiori, insomma, si ritrovano a accettare ciò che di fatto si è già compiuto.

Sopraffazione consensuale
Per tutto il romanzo sembra scorrere sottotraccia la domanda di Hofland sulle ragioni per le quali accettiamo le ingerenze altrui, anche quando il piccolo potere che abbiamo lo renderebbe non necessario: la spinta alla sopraffazione che anima la vicenda si rivela infatti gratuita, insensata, autoalimentata, finché quando nella seconda parte del romanzo il conflitto si allarga, anche la scrittura rinuncia a tenere alta quella tensione che tanto accuratamente era stata indotta, per indirizzarsi verso un divertito quanto assurdo caos orrorifico. Tra fughe nel bosco e improbabili duelli all’ultimo sangue, Hofland chiude lasciando che le sue riflessioni sul romanzo di genere si confondano – non senza un certo compiacimento – con l’inventiva della trama, in una guadagnata libertà stilistica.