Toderi, i terreni agricoli nelle stelle pulsanti
Alias Domenica

Toderi, i terreni agricoli nelle stelle pulsanti

«We mark» (2019) di Grazia Toderi

A Roma, Accademia Nazionale di San Luca, la mostra di Grazia Toderi "Marco (I Mark We Mark)", a cura di Marco Tirelli L'artista «dialoga» con il fratello Marco, agronomo. Migliaia di fotogrammi condensano sul rosso cielo e terra: una perturbante mappa video-sonora

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 3 luglio 2022

Grazia Toderi presenta a Roma all’Accademia di San Luca, fino al 30 luglio, la sua mostra personale “Marco (I Mark We Mark)”. Curata da Marco Tirelli, è concepita come un vero e proprio percorso che siamo invitati ad attraversare ed esplorare.

Marco è Marco Toderi, fratello dell’artista e agronomo. È in stretto dialogo con lui che sono state concepite le tre proiezioni video che occupano la prima parte della mostra, intitolate We Mark (Lights-Shadows) le prime due, entrambe del 2020, e We Mark la terza, realizzata site-specific per il soffitto dell’ultima sala al piano terra dell’Accademia.

Le tre proiezioni sono tutte composte dalla sovrapposizione di immagini fotografiche.

Nelle prime due si tratta di immagini di spoglie porzioni di terreni agricoli. Scelte da Marco Toderi, sono immagini di luoghi che lui ha attraversato e «marcato» con il suo sguardo. Grazia Toderi ha rielaborato queste fotografie in una sequenza video, sovrapponendole una all’altra, seguendo un procedimento già utilizzato in precedenti lavori: «Ogni singolo fotogramma si trasforma in un altro, appena appena diverso, e così via, moltiplicandosi in migliaia di altri fotogrammi che corrono luminosi su una superficie e nel tempo».

Su questa stratificazione di porzioni di terreno, che richiama il processo naturale della tettonica a placche, Toderi ha poi aggiunto la proiezione dei tenui e disseminati bagliori di un sistema stellare, arrivando a riunire in un’unica immagine terra e cielo, il pianeta che abbiamo sotto i piedi e l’incommensurabile estensione del cosmo.

L’intermittente balenio di queste piccole luci, unito al lento modificarsi del terreno e al digradare delle varie tonalità di rosso in cui sono virate le foto, contribuisce a rendere impermanente lo spazio delle proiezioni. In netto contrasto con questa precarietà, l’artista inserisce un ulteriore elemento visivo: sulle tre proiezioni si stagliano, nell’ordine, i disegni di un goniometro, di tre mirini graduati e di un sistema di assi cartesiane.

Sono i disegni di tre strumenti utilizzati dall’uomo per osservare, misurare, comprendere la realtà che lo circonda (e talvolta per conquistarla, sottometterla e controllarla). La disposizione delle tre proiezioni obbliga inoltre i nostri corpi a interferire con questi luoghi: per passare dall’entrata alla seconda sala siamo costretti a calpestare la prima proiezione, scoprendo all’improvviso il nostro corpo e la nostra ombra zenitale al centro del goniometro; attraversando la seconda sala il nostro profilo proiettato sulla parete si ritrova ripetutamente puntato dal mirino e sotto tiro; nella terza sala la proiezione sul soffitto si modifica a seconda del punto in cui ci troviamo. Qui, il nostro movimento nello spazio ci consente lentamente di riconoscere all’interno della sagoma ovale della proiezione l’immagine della superficie terrestre e gli alternati profili dei continenti. La nostra presenza e il nostro sguardo contribuiscono anch’essi a segnare questi luoghi e il loro significato.

Lungo tutto il percorso il nostro procedere è accompagnato da un rumore di fondo, costante, familiare, ma difficilmente identificabile. È il rumore di uno spostamento, di un passaggio. È il vento che s’incanala dentro una grotta? Un oggetto che si muove nelle profondità marine? Un corpo celeste che si sposta nello spazio profondo?

In ogni caso un rumore avvolgente, profondo, simile a quello che si produce quando copriamo le orecchie con le mani e ci mettiamo in ascolto delle vibrazioni interne del nostro corpo, o di quello che gli astronauti percepiscono nello spazio extraterrestre. Anche il suono unisce terra e cosmo.

È dalla fine degli anni novanta che il lavoro di Grazia Toderi riflette su questo legame, mettendo in dialogo oggetti e strutture create dall’uomo con le forme presenti dello spazio extraterrestre: a partire dalle riprese stranianti di un’innocente bambola giocattolo sullo sfondo delle storiche immagini dell’allunaggio in Nata nel ’63 (1997) fino ai video più recenti dove il lavoro di ricomposizione di fotografie per lo più notturne di stadi, teatri e città arriva a trasformare questi luoghi in stelle, pianeti e costellazioni (Il decollo, 1998; Mirabilia Urbis, 2001; Semper eadem, 2004).

In questi lavori, così come nei video ora esposti a Roma, ciò che inizialmente riconosciam elemento reale si trasfigura progressivamente in una presenza misteriosa, su cui sono chiamate a esercitarsi tanto le nostre conoscenze razionali quanto la nostra immaginazione, alla ricerca di un senso che forse è proprio di svelare le innumerevoli corrispondenze e relazioni tra micro e macrocosmo, tra ciò che è a portata dei nostri sensi e quanto possiamo solo arrivare a immaginare.

La dimensione buia, avvolgente e per certi versi disturbante delle prime sale, dove ci troviamo ad attraversare uno spazio che sembra non avere limiti temporali né geografici riconoscibili (quel terreno è la Terra? Marte? l’osservazione ravvicinata della superficie di un corpo umano?), si stempera e si alleggerisce proseguendo il percorso.

La seconda parte si svolge lungo l’imponente architettura della scala borrominiana e, quasi in rispettoso contrappasso con questo spazio, è costituita da un’ampia selezione di disegni e opere su carta di piccole dimensioni, delle diverse serie Orbite rosse (2009), Eterno impersonale (2006), Disappearing Map (2016-’18) e Dissolving Babel (2019).

Pianeti e cosmografie, territori immaginari con costruzioni che s’innalzano vorticose verso il cielo o che s’inabissano verso le profondità della terra, si susseguono uno dopo l’altro, tracciati rapidamente dalla mano sulla carta e punteggiati qua e là da coaguli di grafite o di stagno, che sembrano agglomerati di energia raccolti e pronti a deflagrare, come stelle il cui collasso può generare stelle di neutroni, buchi neri e nane bianche.

Come nelle installazioni video, nelle due serie più recenti Disappearing Map e Dissolving Babel, le immagini finali sono create da Toderi attraverso un processo di stratificazione: i segni sono tracciati su fogli di carta da lucido sovrapposti l’uno all’altro, che permettono la delicata emersione dallo sfondo dei disegni sottostanti, rendendo anche questi lavori «materiale vivo», come la terra che abbiamo sotto i piedi che, come ci ricorda Marco Toderi in dialogo con l’artista, «è fertilità, custodisce ma trasforma, matura, cambia ciò che contiene».

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