Tim Parks, la vescica debole frattura la narrazione
Narrativa inglese Con «In Extremis», edito da Bompiani, Tim Parks trascina l’umorismo inglese dalla parti «basse»: un io posseduto dalle esigenze corporali deve barattare di continuo la sua libertà di pensiero...
Narrativa inglese Con «In Extremis», edito da Bompiani, Tim Parks trascina l’umorismo inglese dalla parti «basse»: un io posseduto dalle esigenze corporali deve barattare di continuo la sua libertà di pensiero...
L’umorismo made in England è notoriamente delicato, melanconico, denigratorio, irrispettoso di bassezze e viltà del protagonista, sollecito verso la curiosità del lettore, ben documentato – decorosamente autobiografico. Ma In Extremis di Tim Parks (tradotto da Eleonora Gallitelli, Bompiani, pp. 374, € 18,00) fa un passo avanti, e va toccare le parti più naturalmente umoristiche del corpo umano, il davanti e il di dietro, la dove non batte mai il sole. Pochi scrittori si erano azzardati a tanto, e in maniera così coinvolgente: la «pioggia dorata» che arriva all’improvviso (ogni venti minuti) all’ansioso gestore di «vescica debole» si impone sulla scansione della storia che un io tormentato vorrebbe vivere e raccontare di fila. Ma non gli è permesso. Ci sono pause che si intromettono, fratturano tempo e spazio, emozioni e decisioni, suggeriscono menzognere risposte, nascondono pungenti disagi.
Come un Gulliver immobilizzato da fili lillipuziani, l’eroe di questa epopea corporale deve barattare di continuo la sua libertà di movimento, di pensiero; la sua compromessa dignità. È solo in presenza della madre, nel suo ricordo, nel ritorno all’infanzia, alla casa, alla parsimonia emotiva, allo spirito evangelico predicato dal padre pastore della «chiesa bassa» che la pietas ha la meglio sul meccanismo comico già innestato. Il corpo vecchio e malato di lei si accorda al bisogno isterico, al fluttuante desiderio di lui; un antico pudore li avvicina e li protegge. Una trasgressione urinaria infantile è dimenticata, le sheperd’s pies e i crumbles sono tuttora appetibili, le sue ultime manie vogliono rispetto; la pioggerella inglese è rinfrescante per il figlio che da anni vive all’estero. Un apice grottesco è toccato dal water della mamma, «gemellato con una latrina di Aghailjhara, in Bangladesh, Asia, latitudine 22.92730, longitudine 90.15011» – come è scritto nella targa affissa alla parete della toilet, accompagnata dalla foto di un ragazzino di pelle scura, sorridente sotto il nome di un ente di beneficienza.
Ma al figlio orinante (e in qualche modo orante) sono odiosi gli americanismi che hanno sporcato la lingua materna: preferisce public lavatory a public bath, è perseguitato dall’orrendo «impattare» che ha tanto «impattato» pure l’italiano … Gli sono insopportabili anche gli arcaismi degli inni protestanti che conferiscono dignità e profondità all’inesistente; sdegna nella funzione funebre lo sfoggio di teatralità della «chiesa alta», troppo simile al ritualismo cattolico. Solo la lettera garantisce la verità.
Tim Parks è linguista ben noto nelle nostre università, ha tradotto classici italiani moderni, da Leopardi a Calasso, ha scritto saggi e romanzi, ha vinto premi, collabora a importanti testate di lingua inglese; ama e disama l’Italia dove vive ormai da quasi quarant’ anni. Dello stile della «chiesa bassa», evangelica, piccolo borghese (se non vado errata), ha mantenuto la compostezza formale, l’aderenza per quanto possibile all’onestà e allo scatto sincero, vitale, anche se sgradevole. È stato il corpo di Tim a prendere il potere, anche della narrazione, quando si è risolutamente ritirato dal circolo viziato dei doveri coniugali. E quella ribellione lo ha scosso da capo a piedi, lo ha morso nelle parti più sensibili e interessate, fino a ossessionargli la mente o, come avrebbe detto sua madre, l’anima. E si era arreso alla religione laica, la psicanalisi, che avrebbe riverberato sulla coscienza la vergognosa e insopprimibile richiesta di amore che saliva appunto dalle regioni infere.
Nel momento cruciale in cui tutta la famiglia vegliava la salma della madre, lui, Thomas, era stato assillato da un estremo bisogno di andare al gabinetto. «Erano già ore che resistevo – le ore della sua morte – resistevo valorosamente, fermo al mio posto; dovevo andarci da tempo … A mia madre non interessava, pensai, che vedessi la sua caricatura imbalsamata. Non sarebbe stato come Tommaso che infila le dita nel costato di Cristo». L’apostolo Tommaso è cercatore di una verità per così dire certificata, e il mite rimprovero di Cristo non ha diminuito la schiera dei suoi imitatori. Thomas-Tommaso – anche lo stesso Tim – è fedele alla lettera; si rifiuta di «visionare» la madre imbalsamata nel tailleur celeste con tanto di cappellino, e si abbandona invece a un massaggio anale del proprio pavimento pelvico. Mettere il dito nella piaga è la sua regola, e aggancia il lettore fin dalle prime pagine con quella scena di penetrazione anale delicatamente effettuata su un letto d’albergo, mezz’ora prima del suo intervento al congresso di fisioterapia. È evidente anche il risvolto politico della parabola proctologica: ti mettono il dito nell’ano con disgusto, compiono quell’atto sgradevole con schifo, ma così arrivano alla loro diagnosi.
Lo spazio-tempo del narratore, un frenetico sterniano, ruota in forma ellissoidale attorno alla figura della signora Sanders: o siamo accanto a lei o assai lontani; in piena libertà per Thom di collocarsi in un punto imprevisto a fare cose imprevedibili. Invece di trovarsi accanto a quel letto deve parlare al pubblico della sua fresca esperienza: «Per quanto possa sembrare grottesco, cinquanta fisioterapiste olandesi tra i ventiquattro e i sessant’anni, con corpi di ogni forma e misura, avevano riorganizzato i tavoli della sala da pranzo del centro di conferenze di Amersfoort in modo da stendersi sopra per massaggiarsi a vicenda dall’ano. Provate a pensarci». Proviamo, e via col forte retrogusto del grottesco.
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