«The Palace», la volgarità del potere è un orrido scherzo tra maschere
Cinema In sala l’ultimo film di Roman Polanski, satira volutamente di superficie, come i suoi protagonisti. Sceneggiato con Skolimowski e Piaskowska, ambientato in un albergo durante il capodanno del 2000, è un lavoro che divide adottando il cattivo gusto del privilegio
Cinema In sala l’ultimo film di Roman Polanski, satira volutamente di superficie, come i suoi protagonisti. Sceneggiato con Skolimowski e Piaskowska, ambientato in un albergo durante il capodanno del 2000, è un lavoro che divide adottando il cattivo gusto del privilegio
È una polonaise di facile interpretazione, almeno all’apparenza – e invece, alla fine, il senso ultimo si perde in un movimento, in eventi, senza esito: il non senso del potere, del cosiddetto capitale, che esala negli ansiti beffardi di una copula tra un chihuahua e un pinguino –; una polacca dotata di immediata ballabilità, The Palace di Roman Polanski: ma poi ci si ritrova a dimenarsi goffamente nel vuoto, tra le macerie della crapula, i personaggi oramai inghiottiti dal loro destino, che doveva essere escatologia indicata dal millennium bug e s’è rivelata invece scatologia, come ogni volta quando dal profondo dell’umano emerge la melma, la cupidigia più nauseante, spicciata ora sulle lenzuola di una suite.
ED È UNA SORTA di apologia della cultura polacca o quantomeno del versante grottesco novecentesco che va da Witkiewicz e Bruno Schulz fino a Gombrowicz e a una variazione sul «tema di Kafka» che, tra le altre cose, questi scrittori polacchi condussero con una certa coerenza, ora sfrenando la fantasia (e le fisiologie), in una dismisura lessicale e sintattica (uno straripamento straordinario della scrittura) che era ad esempio di Schulz, ora scimmiottandola e svuotandola, riducendo le proprietà dell’umano a smorfia, a gesto cacofonico raggelato sul volto. Ecco, Polanski, e con lui Skolimowski ed Ewa Piaskowska nel ruolo di co-sceneggiatori, sembrano guardare a questa lezione del grottesco polacco e forse più in là, o più indietro, fino al gracchiare metallico della prosodia di Jarry o di supermarionette à la Craig. Del resto è nota la matrice letteraria della cultura di Skolimowski, poeta (e sceneggiatore, proprio di Polanski, quello del Coltello nell’acqua, nel 1962) prima ancora che regista.
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L’affaire Polanski e la protesta alla CinémathèqueSE C’È UN SENSO in questo film – e c’è, sia chiaro, anche dal punto di vista del linguaggio cinematografico, che sembra girare a vuoto come fosse la fatuità di un ebete, sembra non arrivare a nulla, se non a quel qualcosa mortuale, escrementizio rappresentato dal potere in sollucchero da ricchezza –, se c’è un senso è nella satira semplificata (tanto da divenire, per simbiosi con i personaggi rappresentati, congegno idiota, rappresentazione frenastenica), stereotipata da una fotografia di cattivo gusto (perché se devi parlare di potere e di ricchezza oggi, non puoi che mostrare l’orrido, l’idiozia, la volgarità): una caricatura che sembra venire appunto da Witkiewicz, Gombrowicz, ecc., ma come filtrata dal postmoderno, dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla «bassa risoluzione» della comunicazione. La caustica, cupida tenzone borghese (gioco raffinato di egotismi, psicologie, finanche psicosi, a confronto) di un film come Carnage è divenuta scherzo triviale, tutto esteriore, corporale; satira grossolana dei potenti, ricchi, ignoranti, nella quale aleggiano il pene smodato e capitalizzato di Bongo (Barbareschi), la parrucca platino di Crush (Mickey Rourke), il vibratore di Costance (Fanny Ardant) e altri feticci. Maschere, imbolsite, abbronzate, imparruccate – come in una sfilata pupazzesca a un funerale di stato, in diretta televisiva – in cui il lavoro dei truccatori, piuttosto che scomparire, essere assorbito nella mimesi della messa in scena, è mostrato beffardamente – strati e strati di protesi – perché il corpo, la pelle decrepiti, purulenti dei personaggi siano lo specchio della loro ignavia, della loro violenza, dei loro abusi impuniti.
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