Un mondo dove la miseria e la condanna al lavoro sono stati banditi e tutti i lavori sporchi sono svolti da macchine intelligenti, ma prone a qualsiasi ordine umano nel pieno rispetto delle bronzee leggi sui robot stilate da uno scrittore in odore di filosofo. Oppure la chimera di una realtà dove tutti riescono ad arricchirsi facendo leva su un individualismo tanto radicale quanto tendente a un perfetto equilibrio, consentendo cioè agli altri umani di perseguire lo stesso desiderio di ricchezza e benessere. In ogni caso, la leva per il mondo perfetto è data da un sistema di macchine così evoluto da far parlare di macchine intelligenti.

Certo, c’è sempre qualcuno che preferisce disegnare scenari apocalittici, dove le macchine svolgono un ruolo, consolidare il potere di una minoranza nei confronti della maggioranza della popolazione. Un medioevo tecnologico seguito a una apocalisse sociale che ha negato la possibilità di liberazione data da un uso intensivo ed estensivo di macchine, intelligenza artificiale e biotecnologie. In questo caso, l’intelligenza artificiale e la scienza – nel medioevo tecnologico la manipolazione genetica serve a selezionare una razza padrona – sono l’ambito per edificare una società dove non c’è spazio invece per immaginare un futuro che provi a rendere reale la chimera mondana di un paese della cuccagna dove è bandita sofferenza e miseria.

La negazione dell’utopia si affianca tuttavia a rinnovate proposizioni di buone società e del buon vivere. Le utopie hanno infatti il potere di affascinare ogni volta che sono proferite, perché proiettano l’uditorio in una terra misteriosa dove tutto diventa possibile. Ciò che era noto rivela la sua insopportabilità, assumendo le caratteristiche di una camicia di forza che impedisce libertà di movimento; e di immaginazione. Quel che appariva come rassicurante e protettivo – la vita quotidiana scandita dagli stessi gesti e volti senza molte variazioni, le relazioni di vicinato così prevedibili nel loro manifestarsi – diventa una costrizione, come quando si indossa un abito troppo stretto che spezza il respiro e rende goffi nei movimenti. In nome di ciò che non è ancora, possono invece essere forzati i vincoli e i limiti della realtà inseguendo il sogno di costruire un altro mondo.

Il potere attrattivo delle utopie non viene meno neppure quando sono messe all’indice in nome di un principio di realtà al quale aderire. Poco importa se condiviso o, all’opposto, rigettato in nome di un futuro da costruire con metodo e dedizione. L’utopia è qui considerata una maledizione che distoglie dal buon vivere, deviando lo scorrere della vita dal giusto procedere. Il principio di realtà è l’insieme di consuetudini e norme che non possono essere aggirate in nome di una società ideale perché così facendo si mette in pericolo l’esistenza di una comunità.

I nemici dell’utopia non hanno dubbi: il futuro non può mai segnare una distanza dal presente, perché in ballo c’è sempre la riproduzione del già noto, senza la quale l’insieme dei rapporti sociali è messo in pericolo. Inutile, balbetta così il cantore dello status quo, sostenere che senza la promessa di un futuro altro da quello già tracciato l’umanità sia condannata alla stanca ripetizione di una esistenza che impedisce proprio quel buon vivere tanto agognato.

All’ignoto del futuro, è dunque preferibile il ritorno del sempre eguale. La tensione esistente tra principio di realtà e utopia svela quindi l’insopprimibile opposizione tra l’adesione allo status quo e il suo obbligato tradimento per migliorare la propria e altrui vita. Sta in questa tensione il fascino dell’utopia, che manifesta la sua attrattiva anche in chi la aborre. L’utopia è cioè una tentazione alla quale va opposto ogni mezzo necessario proprio per la sua aura di futuro che rompe il lento e previsto procedere del vivere in società.

Ma chi si propone di svelare la profondità dell’abisso scavato dalla proposizione di un arido realismo corre tuttavia il rischio del più ignobile e amaro fallimento, se il futuro proposto non è preventivamente avvolto nelle riposanti e stordenti spire di una forte immaginazione sociale. A scanso di equivoci. Il rischio di fallimento dell’utopia sta non in una immaginazione troppo fervida o spregiudicata, bensì nel fatto che non può essere lasciata libera a se stessa, manifestando insopportabili banalità e un fine ben diverso da quello vaticinato. L’immaginazione, e il suo fratello gemello, il realismo, sono cioè ritenuti entrambi portatori di sventura se svincolati da quella stessa realtà dalla quale annunciano il congedo o la più forte adesione.

Quale sia la via che conduca oltre il baratro del realismo e l’abisso di un inferno nascosto dietro l’annuncio di un paradiso terrestre, ci troviamo di fronte a una operazione spericolata e piene di insidie come stanno a testimoniare secoli di utopie destinate tutte a riempire di macerie la storia dell’umanità. Quello che però si manifesta con sorprendente regolarità è il fatto che nonostante i fallimenti e le tragedie consumate in nome dell’utopia, i propositi di riscatto e di felicità tornano a turbare i sonni e il quieto vivere delle società. Pensare il divenire storico senza immaginazione sociale, argomentava con acume Bronislaw Baczko ne L’utopia è un’operazione parziale, monca. Da qui la riproposizione di città ideali, isole che non ci sono, repubbliche ideali.

L’utopia, e il suo fratello, il realismo, sono attitudini destituite di fondamento logico se non sorrette da una idea forte, che faccia deviare il corso degli eventi dalla traiettoria stabilita dalla freccia del tempo scoccata a suo tempo dai suoi custodi. E se l’utopia prospetta un mondo da modellare sotto le mani più o meno sapienti degli umani, il realismo manifesta indipendentemente dai propositi di chi lo invoca una analoga e comunque oppositiva forza modellatrice della realtà nella riproposizioni delle consuetudini, dell’ordinario, delle relazioni sociali modellate secondo le regole immarcescibili dello stato di natura. Tra utopia e realismo, dunque, sono molti più i punti di congiunzione di quelli stabiliti dalla filosofia; o dalla teologia.

Da una parte, quindi, c’è un futuro da modellare secondo quanto è dato possibile immaginare; dall’altra, c’è la forza normativa del noto, del consueto, dell’ordine dato che si propone comunque di plasmare le menti e i corpi.

(Prima versione, agosto 2019, rivista da Laura Fortini)