Teatro degli Orrori, viaggio nel paese decadente
Intervista Il gruppo veneto guidato da Pierpaolo Capovilla pubblica un nuovo album. Uno specchio dei mali italiani: dalle politiche di Renzi alle tragedie sociali
Intervista Il gruppo veneto guidato da Pierpaolo Capovilla pubblica un nuovo album. Uno specchio dei mali italiani: dalle politiche di Renzi alle tragedie sociali
Dodici tracce che suonano come un pesante pugno nello stomaco, quelle che compongono il nuovo e omonimo album del Teatro degli orrori – appena licenziato su etichetta La tempesta (distr. Artist First). Dentro le storie su un paese allo sbando in cui agli orrori della cronaca si contrappunta lo sfascio del sistema politico, la perdita dei diritti acquisiti e un senso sempre più forte di precarietà. Pierpaolo Capovilla prosegue il discorso che aveva in qualche modo annunciato nel suo lavoro solista – Obtorto collo – pubblicato un anno fa: «Esiste una corrispondenza. È indubbio che l’Italia, offre numerosissimi spunti di riflessione e di narrazione. Ma parlerei però di decadenza della società, vera e inarrestabile. Una decadenza culturale e politica e quindi antropologica: il paese non è cambiato, siamo cambiati noi, sono cambiato io. Ti dirò, i ragazzi del gruppo sono ancora più incazzati di me così da spingermi a scrivere dei testi più cattivi e più arrabbiati di prima. Io ho seguito il loro consiglio e ho cercato in questo disco una rimodulazione narrativa. Ho cercato un vocabolario più urbano, meno libresco perché a volte, lo ammetto, sono un po’ pomposo».
Musicalmente è un album aggressivo, certo, ma rispetto al passato il lavoro armonico e sugli arrangiamenti risulta essere più complesso, ragionato. «Sì, è vero – risponde Giulio «Ragno» Favero, il bassista – anche se nei dischi passati questa volontà di ricerca c’è sempre stata. Ora con l’ingresso di Marcello e Luca (quest’ultimo maestro di pianoforte) osiamo di più. Nel nuovo disco, ad esempio, abbiamo scelto dei tempi dispari mai usati in precedenza».
Il lungo sonno, lettera aperta al Partito democratico è un pezzo che si esplicita da solo: la delusione di Capovilla sulla deriva di quello che una volta era un partito di centro sinistra: «Da ex iscritto – spiega – vivo quella trasformazione con un sentimento di lutto e repulsione, non potevo non scriverla questa canzone». Sostanzialmente è l’eterogenesi dei fini…: «Un nuovo gruppo dirigente si è impadronito di quello che era il Pd, partito erede del Pci di Berlinguer e lo ha trasformato in un gruppo conservatore se non reazionario. Cos’è questa se non una brutale eterogenesi dei fini? Sono stato iscritto per qualche anno, ma in Renzi non riesco a vedere alcuna differenza con la politica Berlusconi. Anzi, il premier ha perfezionato la formula berlusconiana…».
La paura parla di emarginazione, dalla prigione all’esclusione sociale. «È il tunnel in cui la legge e lo stato spingono tanti giovani, senza prendersi cura in alcun modo del loro futuro». Poi c’è Genova, racconto della violenza brutale di uomini in divisa, il fascismo strisciante: «Diciamocela tutta, Genova è stata una sospensione dei diritti civili di fronte a tutto il mondo e niente è stato fatto per rendere giustizia alle vittime. Nei ’70 si sarebbero detti ’provocatori in borghese e fascisti in divisa’ esattamente quello che è successo a Genova. Nella canzone abbiamo voluto sottolineare l’orgia di violenza che si è celebrata a Bolzaneto e alla Diaz. Se ascolti in cuffia il brano, recitiamo tutte le porcherie, i gemiti e i sussurri che dicevano i poliziotti».
Una giornata al sole, che conclude l’album, sembra quasi un momento di quiete, eppure non è così. È la domenica dell’operaio, il suo momento di libertà nel quale godere di un po’ di tempo libero. Ma poi ricomincia la settimana….«Eh si, un po’ come l’ora d’aria… È il disco più disperato, tenebroso e scuro che abbiamo mai scritto».
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