Visioni

Tattoo Records, addio all’ultimo covo dei pirati

Tattoo Records, addio  all’ultimo covo dei piratiL’interno di Tattoo Records, – foto di Francesca De Paolis

Ritmi urbani Chiude nel centro città lo storico negozio di vinili, tra i pochi resistenti di una Napoli scomparsa. Enzo Pone, il gestore: «Il turismo di massa ha cambiato le regole»

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 6 ottobre 2024
Enzo Pone il giorno dell’apertura nel 1983, foto di Francesca De Paolis

Dieci del mattino, ha da poco smesso di piovere. Gli addetti delle pizzerie e delle decine di bar in piazzetta Nilo, così chiamata per via dell’antica statua egizia collocata al suo centro, sistemano sedie e tavolini. Da un piccolo bugigattolo che affaccia sulla piazza, le note acute di un sax si diffondono nell’aria umida, come in un film. Tattoo Records, questo il nome del negozio, stride in mezzo alla distesa di insegne di pizze e spritz: i dischi e i vinili nelle vetrine e sugli stand, stretti nella morsa dei tavolini, sono l’ultima traccia di una Napoli scomparsa, ammazzata dal turismo consumistico e omologante che ha cambiato i connotati alla città.
Enzo Pone, 71 anni, ha aperto oltre quarant’anni fa. Generazioni di napoletani si sono formate in quello che più di un negozio di dischi, è tana, avamposto di pirati. «Sono nato a Bagnoli, cresciuto con la sirena della fabbrica. Ho fatto il ferroviere a Milano, mi spostavo moltissimo, sono stato a lungo a New York e Chicago, andavo a trovare la mia fidanzata Terry Davis, cugina di Angela (attivista per i diritti del movimento afroamericano, ndr). Era la New York degli ’80, John Lennon era stato ucciso da pochi mesi, in città c’erano ancora i manifesti a lutto. Andavo in giro per il Village a comprare dischi e ascoltare musica nei piccoli club. A New York mi trovavo bene, venivo dalla militanza politica tosta, cercavo qualcosa in più della semplice aspettativa di vita. Decisi di licenziarmi e tornare a Napoli. Furono i compagni operai, amici di mio padre, ad aiutarmi a sistemare il negozio. Aprii l’11 marzo 1983. Radio Popolare diede la notizia, due giorni dopo avevo la folla. Avevo dischi di Lou Reed, Tuxedomoon, Curtis Fuller. Portavo etichette indivinili a 100 lire, oggi varrebbero migliaia di euro».

Negli ottanta sono tornato da Ny con molti sogni. Avevo dischi di Lou Reed, Tuxedo Moon, Curtis Fuller, portavo etichette indipendenti come Betlemme Records

PER SOPRAVVIVERE iniziò a organizzare concerti nei teatri e club del centro di Napoli: il Mephisto in via Medina, il Riot, il Teatro Nuovo, ma anche in provincia. «Compravo i day off dell’Umbria Jazz. Per avere un buon prezzo dovevo prendere almeno cinque date, le piazzavo ad Avellino, Caserta, Benevento. Ho portato musicisti blues da ogni parte del mondo: il trio di Billie Holiday, Paul Motian, Charley Haden, Geri Allen; Cassandra Wilson, Andy J Forrest, Louisiana Rag. Ricordo Frank Frost, uno degli ultimi musicisti blues viventi dei ‘30-’40: nel contratto fece scrivere una bottiglia di Jack Daniel’s al giorno».
Pone ha sempre sposato la filosofia del “do it yourself”: «Ore in fila all’assessorato alla cultura, nessuno mi ha mai dato una lira. Trovai degli sponsor: la Campagnola, storico ristorante in piazzetta Nilo, mi dava i pasti, Loveri (negozio in via San Sebastiano che fino a pochi anni fa era la strada degli strumenti musicali) garantiva l’amplificazione: li mettevo sulle locandine che attaccavo da solo, in giro per la città». Un’altra Napoli, un altro centro antico, lontano anni luce dall’incubo di bassi trasformati in b&b, bancarelle di robaccia e puzza di fritto ovunque di oggi. «Era un po’ come il Village. C’erano tossici, scippatori, artisti, attori, professori. Toni Servillo, Renato Carpentieri, Mario Martone, Toni Neiwiller, Salvatore Cantalupo, la mattina in piazza veniva a comprare il giornale Livia Croce, figlia di Benedetto. A Palazzo Carafa c’era una sala prove fondata da Enzo Petrone, bassista degli Osanna, quanti gruppi sono nati lì! Ho avuto molti clienti noti, Luigi Necco, Francesco Rosi; Vittorio Mezzogiorno veniva a prendermi, andavamo a pranzo, dopo mi comprava 500 mila lire di dischi. Una volta gli ho venduto un cofanetto rarissimo di Laurie Anderson con John Giorno».

IL PROSSIMO 15 ottobre Tattoo Records chiuderà i battenti. «Sono stati anni molto belli, oggi siamo nella polvere. Anche per ciò che ho vissuto, sento di dover andare via. Col jazz non fai i soldi che fai con la pizza. Negli ‘80 –‘90 ho lavorato tantissimo, sui dischi c’era il 30 per cento di ricarico, sulla pizza c’è il 300. L’invadenza di certi pseudo imprenditori è stata permessa. È venuto meno il tessuto sociale, colto, progressista impegnato della città. Non tollero chi ha preso in mano la piazza, i calzini, il corno, la pizzeria che mette i tavoli attaccati alla statua del Nilo: non mi riconosco più in questa città. In questo lavoro ci ho sputato l’anima, trascurando anche la famiglia. Ho fatto di tutto per pagare l’affitto del negozio. Non mi ha ucciso l’usura, né il covid: mi stanno uccidendo le pizze, e il comune che ha concesso tutte queste licenze. Lavorerò da casa, il mio laboratorio di ricerca, i clienti storici hanno il mio numero. Possono sempre chiamarmi e chiedermi “hai qualcosa per me?”. Continuo a essere quello che attaccava le locandine nei locali. Senti, senti questo blues nero come graffia: Oliver Nelson, “Screamin’ the blues”, ristampa introvabile». Entra un avventore, attirato dal desueto suono del sax. Qualche turista, passando, per un attimo si ferma, poi procede spedito verso la vetrina dei babbà.

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