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Surrealisti svizzeri, tra fiori e tenebre

Surrealisti svizzeri, tra fiori e tenebreJean-Pierre Viollier, "Méditations genevoises", 1934, Ginevra, Association des Amis du Petit Palais

Al MASI di Lugano, "Surrealismo Svizzera", a cura di Peter Fischer e Julia Schallberg Esiste un surrealismo svizzero? Si direbbe di sì, con Brignoni, Moos, Sekula, Seligmann, Viollier, Schaad, Abt, Wiemken... I riporti dagli artisti maggiori assumono «colori» locali

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 17 marzo 2019

Ogni stagione dell’arte porta con sé messaggi e rappresentazioni del mondo nuovi e del tutto originali. In tedesco, si direbbe che ogni corrente estetico-culturale inaugura una nuova Weltanschauung, un nuovo modo di esprimere e raffigurare la posizione dell’uomo nelle trame della realtà che lo circonda. E per ognuno di questi «affreschi» possiamo trovare dei rappresentanti che meglio di chiunque altro hanno saputo condensare in un’opera, in uno scritto o in un sistema filosofico l’intera struttura di una specifica «visione del mondo». Per il Surrealismo, appare del tutto legittimo intendere le figure di Alberto Giacometti, Hans Arp e Paul Klee come precursori ed esponenti di primissimo piano del movimento fondato da André Breton. Ed è proprio a partire da questi tre artisti che muove la mostra, offerta dal Museo d’Arte della Svizzera Italiana di Lugano, intitolata Surrealismo Svizzera (a cura di Peter Fischer e Julia Schallberg, coordinamento e allestimento a cura di Tobia Bezzola e Francesca Benini, fino al 16 giugno).
Il percorso è naturale che prenda le mosse proprio da Giacometti, Arp e Klee: nel contesto elvetico, sono loro ad aver approfondito maggiormente il significato espressivo del Surrealismo o addirittura ad aver gettato le basi affinché questa corrente artistica potesse prendere forma, come nel caso di Klee. E dunque, al centro dell’esposizione, appare azzeccata la scelta di porre alcuni capolavori scultorei di Giacometti e Arp. Dell’artista di Borgonovo di Stampa, nel Canton Grigioni, all’inizio del percorso troviamo tre opere: Homme (Apollon) e Femme couchée qui rêve del 1929 e Fleur en danger del 1932. Mentre per quanto riguarda Arp spiccano le due sculture Frucht unterwegs (1965) e Tête et conquille (1933).
Lo diciamo subito: sono questi i pezzi più folgoranti e preziosi dell’intera mostra. Ma forse, da un altro punto di vista, possiamo scovare il nucleo più interessante di Surrealismo Svizzera proprio dopo aver lasciato alle spalle i capolavori di Giacometti e Arp. Come a dire che il vero centro dell’esposizione non è situato tanto nelle opere più conosciute e rappresentative di questi giganti dell’arte novecentesca, quanto nelle propaggini e nei rivoli che si sono sviluppati in conseguenza della loro opera.
È qui che lo spettatore ha la rara opportunità di entrare in contatto con un universo di opere e artisti solitamente ignorato dalle strutture museali più influenti e dalle riflessioni della critica contemporanea. Fra i molti artisti che vengono proposti ai visitatori, troviamo così Serge Brignoni, pittore e scultore originario di Chiasso, ma che ha sviluppato la propria poetica frequentando gli ambienti cubisti della Parigini di inizio Novecento. Una poetica gentile, leggermente assopita, capace di traslare gli elementi sognanti e onirici del Surrealismo verso il mondo innocente della natura, dei fiori, del ciclo cosmico della morte e della rinascita. Lo si può apprezzare immediatamente nella notevole tela del 1932 dal titolo Germinations, dove una composizione a metà strada tra Picasso e Kandinskij restituisce all’osservatore tutta la magia della vita che erompe nel mondo animata da colori vivacissimi e da una dinamicità di dionisiaca memoria.
Una vivacità esplosiva che, subito dopo, ritroviamo anche nei quadri di Max von Moos e Sonja Sekula. Il primo si rifà espressamente ai temi più astratti e primitivi del Surrealismo, andando a sfiorare alcuni elementi tipici di Dalí. Come è possibile vedere nel dipinto Totenklage (1936): qui alcuni oggetti totemici e arcaici svettano su un paesaggio quasi metafisico, desertico, animato unicamente dalle tonalità accese dei colori pastello della tela. Non vediamo niente di immediatamente comprensibile per noi. Tuttavia, il quadro ci parla direttamente, rimandando a un linguaggio non razionale bensì fondato sui simboli eterni del sacro e dell’onirico.
In direzione diversa si muove Sekula, anch’essa nata a Lucerna come von Moos. Il suo Un jeu (1943) colpisce per l’abilità con cui l’artista utilizza tecniche e temi molto distanti fra loro. L’opera, infatti, richiama una sensibilità a metà strada fra l’Astrattismo e alcune esperienze più tipicamente espressioniste. Tinte brillanti, tratti decisi e marcati, un’alternanza di figure e sagome che alludono a una realtà che non può essere rappresentata compiutamente. Un’allusione, quella di Sekula, all’invisibile che non può essere detto, ma solo sfiorato da lontano con il pennello.
E da Sekula non si può che passare alle opere di Kurt Seligmann, che la stessa artista aveva incontrato a New York insieme a Breton e agli altri surrealisti europei emigrati in America tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Con Seligmann lo sguardo si posa su tutt’altro ordine di allusioni e rimandi, ben raffigurati nel grande dipinto La deuxième main de Nosferatu del 1938. Qui alla vivacità e ai colori brillanti si sostituisce una brezza mortifera e caotica, che sospinge la materia verso la decomposizione e il disfacimento delle forme. E del resto anche nel più armonioso Hommage à Urs Graf (1934) l’atmosfera rimane asfittica, appesantita dall’utilizzo di pigmenti spenti e gravi, nel segno di una fatalità che tutto trasporta inesorabilmente verso la fine della vita.
La mostra include molti altri artisti e opere, come per esempio l’inquietante Jean Viollier che con il suo dipinto L’épouvantail charmeur III (1928) dà la copertina all’intera esposizione e anticipa lo stile delle cosiddette transparences, che avrà poi grande fortuna grazie a René Magritte. O, ancora, i richiami a de Chirico di Werner Schaad, le rappresentazioni allucinate e trasognanti di Otto Abt, i racconti apocalittici e visionari messi in scena da Walter Kurt Wiemken.
Insomma, una volta usciti da Surrealismo Svizzera ci troviamo nella condizione di poter rispondere lucidamente alla domanda che il curatore Peter Fischer pone ai visitatori nel primo pannello della mostra: «Esiste un surrealismo svizzero?» Non abbiamo molti dubbi. Data l’abbondanza di opere e artisti che, per motivi anagrafici, formativi o personali, hanno avuto a che fare con la Svizzera, la risposta è un netto sì. Una risposta che aggiunge un ulteriore tassello allo studio del Surrealismo e dell’arte novecentesca tout court. Un tassello che batte bandiera elvetica e che reclama per sé l’attenzione della storia e dell’estetica contemporanee.

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